La crisi europea non è finita

Un calcio arriverà, Mr Cameron: meglio da Merkel o dai Tory?

Paola Peduzzi

I commentatori inglesi vanno pazzi per “55 days”, una pièce teatrale che dal 18 ottobre scorso va in scena all’Hampstead Theatre e che racconta lo scontro tra Carlo I e il Parlamento finito con la decapitazione del re, davanti al Palazzo di Whitehall. Era il 1649, ma i pundit britannici ci vedono molte analogie con l’oggi, tanto che ripetono: andate a vederlo, andate a vederlo, c’è poco tempo, fino a sabato e poi basta (sul sito c’è un bel “sold out”, forse gli appelli sono stati ascoltati, forse la pièce è davvero bella, anche se gli onesti ammettono che è una lezione di storia serrata, nella pausa mangi molti zuccheri, gli attori sono bravissimi ma pare di intendere che noi continentali non ci capiremmo un bel niente, e non sarebbe l’unica cosa che ci sfugge, sul Regno Unito).

    I commentatori inglesi vanno pazzi per “55 days”, una pièce teatrale che dal 18 ottobre scorso va in scena all’Hampstead Theatre e che racconta lo scontro tra Carlo I e il Parlamento finito con la decapitazione del re, davanti al Palazzo di Whitehall. Era il 1649, ma i pundit britannici ci vedono molte analogie con l’oggi, tanto che ripetono: andate a vederlo, andate a vederlo, c’è poco tempo, fino a sabato e poi basta (sul sito c’è un bel “sold out”, forse gli appelli sono stati ascoltati, forse la pièce è davvero bella, anche se gli onesti ammettono che è una lezione di storia serrata, nella pausa mangi molti zuccheri, gli attori sono bravissimi ma pare di intendere che noi continentali non ci capiremmo un bel niente, e non sarebbe l’unica cosa che ci sfugge, sul Regno Unito).
    Iain Martin, una star tra i commentatori conservatori, ha scritto sul Sunday Telegraph che “55 days” gli ha fatto molto pensare al contenzioso aperto tra Londra e Bruxelles: Carlo I rivendicava poteri e privilegi assolutistici (perché ispirato direttamente da Dio, sosteneva: il giorno della sua morte, il 30 gennaio, è tuttora celebrato dalla chiesa anglicana), il Parlamento non voleva concederglieli e arrivò a decapitare il suo re piuttosto che cedere. “Stiamo vivendo un lungo periodo di venerazione delle organizzazioni multilaterali – scrive Martin – Il che significa che l’élite politica e finanziaria globale prende decisioni al posto degli elettori, senza nemmeno chiedere loro che cosa ne pensano.

    Preoccuparsi della sovranità e dei diritti di un Parlamento sembra antiquato. Tranne che poi succede che, se vivi in un paese che ha adottato l’euro e non avrebbe dovuto, il costo di aver ceduto il controllo dell’economia del proprio paese diventa veramente alto”. Martin sospira di sollievo, per fortuna Londra non ha fatto la follia di infilarsi nell’euro, ma la domanda di fondo rimane, ed è la stessa che sta alla base di “55 days”: “Where does power ultimately lie?”, chi decide, chi ha il potere?
    Nel contenzioso che il premier britannico, David Cameron, ha aperto con il resto dell’Europa, al centro c’è la sovranità. E’ brandendo quest’arma che da domani Cameron discuterà con il resto degli europei del bilancio dell’Ue per i prossimi sette anni: nessun vertice è preceduto da chiacchiericci rassicuranti, ma in questo caso si raggiunge l’inquietudine, se è vero, come ha scritto il Financial Times, che i 26 membri dell’Ue hanno già un piano di budget che non include l’Inghilterra, cioè danno per scontato che Londra, che vuole un congelamento delle spese, metterà il veto.
    Christopher Caldwell ha ben spiegato sull’ultimo numero dello Spectator, magazine conservatore-tendenza-Cameron, l’essenza dell’euroscetticismo britannico, che è “costituzionale, non economica”: “Uno degli aspetti più folli nel ‘run-up’ verso il summit europeo strombazzato in molti giornali continentali è quello che suggerisce una lista di carote da fornire agli inglesi in cambio delle quali Londra potrebbe accettare un aumento del budget”. No way, dice Caldwell, “un budget più grande darebbe all’Europa il diritto di fornire quel che Walter Bagehot chiamava ‘the dignified part of government’” – si sa che quando si arriva a citare Bagehot significa che si è oltre l’essenza dell’euroscetticismo, si è finiti diretti nell’arsenale nucleare della filosofia politica britannica.

    Secondo la versione più romantica dell’euroscettismo, quindi, Londra non è in vendita, non ha intenzione di scendere a compromessi, è una Cool Britannia tutta d’un pezzo. Ma non c’è bisogno di ricordare la pur mitica borsetta della Lady di Ferro per sapere che ci sono molti conti da far tornare, a Londra, oltre che tenere fermamente il punto. Cameron ha soprattutto un conto politico da far quadrare: deve tenere a bada il suo partito, l’opportunismo dell’opposizione (il Labour ostentatamente euroscettico è un’altra delle meraviglie della direzione di Ed Miliband) e il solito Boris Johnson, il sindaco di Londra che iniziò la sua carriera da giornalista parlando male dell’Europa. E’ un “Triple trouble”, come l’ha definito Tim Montgomerie sul suo imprescindibile ConservativeHome.com (ci sarebbe anche il “trouble” murdocchiano, visto che il primo consigliere del premier, Andy Coulson, e la sua amica Rebekah Brooks, ex capo di News International, sono stati accusati di aver pagato funzionari e poliziotti: oltre alle intercettazioni illegali anche la corruzione, va sempre peggio). E mentre Cameron promette che o a Bruxelles si raggiunge un accordo favorevole all’Inghilterra o lui apporrà il veto, e pazienza se Angela Merkel metterà il muso, risuonano nelle orecchie soltanto le parole di Boris Johnson, che non dovendo mettersi a negoziare con gli altri 26 paesi dell’Unione europea può permettersi di dire la verità, tipo che i soldi dei contribuenti inglesi finiscono ai pastori spagnoli che non hanno più nemmeno una pecora da far pascolare.

    Gli aspetti economici contano eccome. Gideon Rachman li metteva in fila ieri sul Financial Times e sosteneva che a nessuno conviene un’Europa senza Londra, non conviene agli europei e non conviene agli inglesi. Le richieste di Cameron sono inaccettabili per Bruxelles, che vuole mettere a punto un budget di spesa che vada nella direzione dello stimolo, dal momento che l’austerità è diventata tabù, ma non sono così irragionevoli: congelare le spese in un momento in cui i soldi non ci sono – ricorda Rachman – era un’idea sostenuta anche dalla Germania, fino a poco tempo fa. Per l’editorialista esperto di cose europee, bisognerebbe che l’Europa rinunciasse ad alcuni poteri, quelli in materia di istruzione, sanità e lavoro per esempio: rimpatriare poteri non dovrebbe più essere un’eresia, insomma (Rachman conclude con una provocazione: tutto un casino per tenere la Grecia dentro l’euro e neanche una piccola mano tesa per trattenere gli inglesi?). La cancelliera tedesca Merkel inorridisce di fronte a tanta sfrontatezza, lei che è per il rigore ma anche per la solidarietà, lei soprattutto che si è innamorata di un’idea molto schaübleiana d’Europa, quella federalista. Ma mai sottovalutare il desiderio europeo di trovare una via di fuga: se Cameron mette il veto può tornare a Londra gonfio di euroscetticismo e mettere a tacere i tanti ribelli che gli stanno attorno, e gli altri 26 avrebbero qualcuno cui dare la colpa. Non male come patto. Anche i continentali ambiscono a un re cui tagliare la testa.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi