
Rushdie à rebours
Irresistibubble, Adorabubble, Delectabubble”: erano i “bubble words” inventati da Salman Rushdie, quando faceva il pubblicitario in un’agenzia londinese per il cioccolato Aero, al latte con bolle d’aria. Bubbles, appunto. Ultima mossa di una carriera da Mad Man che stava per finire. Senza rimpianti: voleva scrivere romanzi. Per questo se n’era tornato in India, viaggiando con pochi soldi e dormendo in alberghetti pulciosi. Fatto il pieno di luoghi e di storie, si era messo a tavolino con l’idea di scrivere “I figli della mezzanotte”.
"Irresistibubble, Adorabubble, Delectabubble”: erano i “bubble words” inventati da Salman Rushdie, quando faceva il pubblicitario in un’agenzia londinese per il cioccolato Aero, al latte con bolle d’aria. Bubbles, appunto. Ultima mossa di una carriera da Mad Man che stava per finire. Senza rimpianti: voleva scrivere romanzi. Per questo se n’era tornato in India, viaggiando con pochi soldi e dormendo in alberghetti pulciosi. Fatto il pieno di luoghi e di storie, si era messo a tavolino con l’idea di scrivere “I figli della mezzanotte”: la storia della sua generazione: ragazzini con poteri magici (una sorta di X-Men, con il senno di poi) nati il 15 agosto 1947, quando l’India cacciò gli inglesi e riconquistò l’indipendenza. Un paio di mesi dopo la sua, di nascita. Come usava dire suo padre: “E’ arrivato Salman e dopo otto settimane i britannici sono scappati”.
Nel 1981 “I figli della mezzanotte” vinse il Booker Prize, battendo “L’albergo bianco” di D. M. Thomas (che vantava Freud e l’Olocausto, e aveva i suoi fan scatenati, prima che arrivasse un’accusa di plagio). Già eravamo schierati dalla parte di Rushdie, capace di mettere insieme Dickens e il grande mare delle storie raccontate nel subcontinente. Piacere proibito allora anche più di adesso. Il romanzo era stato dato per morto, toccava leggere scrittori diventati tali per ferma volontà e non per talento (infatti spesso scrivevano storie di scrittori che non riuscivano a concludere un libro). Non era morto né moribondo: aveva soltanto cambiato città di riferimento. Londra e Parigi avevano lasciato il posto a Bombay (e perfino a Dublino, dove cominciavano a scrollarsi di dosso la pesante eredità di James Joyce).
Seguirono sette anni di felicità. “Più di quanti ne siano concessi a molti scrittori”, scrive Salman Rushdie in “Joseph Anton” (Mondadori), aggiungendo che “il successo rende amabili” (vale per lui, non in generale, e dovrebbe nel frattempo essersene reso conto). E’ la cronaca degli anni bui seguiti alla fatwa scagliata dall’Ayatollah Khomeini (che a occhio non sembrava il tipo che legge romanzi) contro i “Versi satanici”. “Joseph” come Conrad e “Anton” come Cechov: la sua scorta voleva un nome di copertura con cui chiamarlo, lui decise per uno pseudonimo letterario. Racconta la vita da recluso, spesso in appartamenti così piccoli che era costretto a chiudersi nel bagno quando arrivava l’operaio per aggiustare le tapparelle. O la telefonata delle sette di sera al figlio Zafar, appuntamento mancato solo una volta, con angoscianti conseguenze. O la casa editrice Penguin che cercò di fregarlo sui diritti dell’edizione tascabile dei “Versi satanici” (poi gli riconobbe il dovuto, senza una parola di scuse). O quelli come John Berger, che lo attaccarono facendolo passare per un provocatore: “Sì, loro ti hanno rovinato la vita, ma la colpa è tua che non te ne sei stato zitto e buono”.
Racconta anche molte altre cose, con l’ironia che conosciamo per aver letto i suoi romanzi. Sono splendide le pagine sul laboratorio dello scrittore. Su come un’idea che gli ronzava nella mente dai tempi degli studi a Cambridge – dove voleva presentarsi alle cerimonia di laurea con le scarpe marroni, lo spedirono in camera a cambiarsi – diventa un fantasmagorico e appassionante romanzo come “Versi satanici”. Romanzo più citato che letto, tanto è vero che nessuno ricorda mai i riferimenti al cinema di Bollywood, amato da Rushdie quanto il cinema di Hollywood (il suo libro sul “Mago di Oz” è uno dei più belli mai dedicati a un film). Un romanzo che gli era costato cinque anni di lavoro: “Se devo insultare, sono molto più rapido”. Racconta anche mogli, compagne e fidanzate che con il passare del tempo rivelano immancabilmente un caratteraccio. Una faceva la scrittrice, dopo la rottura scrisse un romanzo intitolato “Ancestors”, e quando un giornalista del Guardian a proposito di un personaggio particolarmente odioso le chiese: “E’ basato su Salman Rushdie?”, la risposta fu: “Non quanto nella prima stesura”.


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