Renzi, Bersani e il tabù del carisma

Claudio Cerasa

Dimenticatevi le ultime polemiche di giornata, gli ultimi battibecchi elettorali, le ultime sciocche contese sui quattrini, le ultime malizie sulle regole, gli ultimi bisticci sui fuorionda e le ultime scemenze sugli imminenti brogli ai gazebo, e nelle prossime ore provate a perdere qualche minuto e ragionare su quello che alla fine di questa campagna per le primarie potrebbe essere il vero fuoco e il vero senso culturale della sfida tra l’usato sicuro di Pier Luigi Bersani e la rottamazione di Matteo Renzi.

    Dimenticatevi le ultime polemiche di giornata, gli ultimi battibecchi elettorali, le ultime sciocche contese sui quattrini, le ultime malizie sulle regole, gli ultimi bisticci sui fuorionda e le ultime scemenze sugli imminenti brogli ai gazebo, e nelle prossime ore provate a perdere qualche minuto e ragionare su quello che alla fine di questa campagna per le primarie potrebbe essere il vero fuoco e il vero senso culturale della sfida tra l’usato sicuro di Pier Luigi Bersani e la rottamazione di Matteo Renzi. Inutile girarci attorno e inutile prendersi in giro: perché, certo, la battaglia tra il sindaco di Firenze e il segretario del Pd è anche una battaglia di contenuti, di stili, di idee e di modi diversi di intendere il futuro della sinistra, dell’economia, del partito, dell’Europa, del lavoro, del fisco, del welfare e di tutto quello che volete. Ma al netto di questo e al netto dell’altro tema centrale di questa campagna elettorale – Rottamazione! Rottamazione! Rottamazione! – la vera traccia da seguire per capire qualcosa di più su queste primarie è quella legata a una questione importante che potremmo riassumere con quattro semplici parole: il tabù del carisma.

    Forse lo avrete notato e probabilmente non vi sarà sfuggito ma il fatto è che dall’inizio della campagna elettorale a oggi non è un caso che non ci sia stato un solo attimo, un solo discorso, una sola dichiarazione o una sola intervista in cui i due veri competitor di queste primarie (Renzi e Bersani) non abbiano messo al centro della contesa due modi profondamente alternativi di affrontare il tema della leadership. Bersani in alcune occasioni lo ha detto anche esplicitamente – “Le primarie non sceglieranno solo il candidato premier del centrosinistra, ma dovranno farci capire se siamo capaci di costruire un’alternativa di sistema rispetto agli ultimi vent’anni, ai fasti della comunicazione sognante, della potenza mediatica, dell’antipolitica, della demagogia e della personalizzazione della politica” (Reggio Emilia, 13 novembre) – e a poche ore dall’apertura dei gazebo il messaggio arrivato all’elettore ormai risulta chiaro: da un lato c’è una leadership tiepida, misurata e moderata che invocando parole come “collegialità”, “ditta” e “antipopulismo” considera il capo di un partito infinitamente meno importante del partito stesso; mentre dall’altro lato c’è una leadership muscolosa, enfatica e passionale che invocando parole come “governabilità”, “decisionismo” e “modernizzazione del sistema politico” vede nella figura di un capo molto forte un valore aggiunto assolutamente irrinunciabile per una vera coalizione di governo.

    Fossimo in Francia, in Germania o in Inghilterra potremmo limitarci a dire che il peso differente che Renzi e Bersani danno alla figura del leader altro non è che uno dei tanti piccoli ingredienti che caratterizzano una sfida tra due diverse espressioni del centrosinistra. Ma a guardar bene e a scavare a fondo nel background culturale della sinistra italiana la questione del peso di un leader costituisce il terreno di una grande guerra di religione combattuta all’interno della sinistra e costituisce in particolar modo una delle ragioni più profonde per le quali Matteo Renzi viene spesso osservato dai suoi avversari non come una semplice alternativa a Bersani ma come una sorta di corpo estraneo – o meglio ancora, come spesso ripete Rosy Bindi, “un fenomeno autentico di degenerazione della politica”.

    “Sì – dice al Foglio il professor Angelo Panebianco, docente di Scienze politiche all’Università di Bologna – la vera questione di questa campagna è che una buona parte della sinistra continua a vedere il carisma come se fosse un concetto di destra ed è per questo che Renzi viene visto da molti come se fosse una specie di cavallo di Troia del centrodestra. La ragione di questa diffidenza è profonda e deriva da una questione semplice. In Italia, infatti, la sinistra ha sempre visto il carisma del capo non come una qualità dell’individuo ma come un riflesso del carisma del partito, e della ‘ditta’, come si direbbe oggi. Renzi, da parte sua, ha provato a ribaltare questo dogma e ha cercato di dimostrare che invece l’individuo può dare un valore in più alla comunità che rappresenta e che un leader moderno non può più permettersi – come un tempo magari era per Togliatti e Berlinguer – di vivere soprattutto di luce riflessa. Il tema dunque è centrale e a mio modo di vedere ha una serie di riflessi che tenderei a non sottovalutare”.

    I riflessi a cui fa riferimento il professor Panebianco si riferiscono a un’altra questione collegata al tema del tabù del carisma e più in generale alla campagna elettorale del centrosinistra. Una questione che solitamente gli storici affrontano tirando in ballo un’espressione decisamente efficace: la sindrome del tiranno. Dietro al terrore che una parte del Pd cova di fronte alla possibilità che un leader molto forte possa finire a capo di una coalizione c’è infatti un vecchio problema mai definitivamente risolto nella sinistra: non solo il carisma di un leader ma anche le funzioni che quel leader deve avere una volta arrivato al governo. E anche su questo fronte si può dire che lo scontro tra Renzi e Bersani non è solo una semplice competizione tra due modi diversi di intendere la sinistra ma è anch’esso un altro scontro di civiltà tra due mondi che più distanti non potrebbero essere. Un mondo che, in nome della “mediazione”, della “concertazione” e della lotta ai “tiranni”, considera irresponsabile, incosciente e pericoloso per la democrazia dare troppo potere al leader o al presidente del Consiglio; e un altro che al grido hamiltoniano di “un esecutivo debole implica azione di governo parimenti debole” considera invece irresponsabile, incosciente e pericoloso per la democrazia non dare al capo di un governo i poteri necessari che gli consentano di governare e di esprimere quell’energia indispensabile per rimuovere le resistenze al cambiamento. “Davanti al Pd – hanno scritto i senatori Enrico Morando e Giorgio Tonini in un libro molto renziano dedicato a questo tema, ‘L’Italia dei democratici’ (Marsilio) – c’è oggi una sfida allo stesso tempo politica e culturale: liberare se stessi e il paese dal complesso del tiranno, anche attraverso una rilettura critica della nostra storia e proporre una visione innovativa del rapporto tra leadership e democrazia, che prenda atto che i leader sono diventati sempre più importanti nel funzionamento delle democrazie e che si tratta di controllarli, di addomesticarli alle imprescindibili regole liberaldemocratiche, non di contrastarne l’ascesa o impedire loro di governare”.

    Al contrario di quello che si potrebbe credere, però, dire che nella sfida di Renzi c’è il tentativo di trasformare il carisma in un concetto di sinistra non significa sostenere che Bersani sia un leader che sottovaluta l’importanza che nella politica contemporanea ha la declinazione di una leadership carismatica. Bersani, come abbiamo visto, a parole non fa che ripetere che il “suo” centrosinistra ha intenzione di – ops, ci è scappata – “rottamare” il modello di personalizzazione della politica e il segretario questo concetto lo ha ripetuto spesso durante la sua campagna elettorale. Ma nonostante il chiaro sottotesto del messaggio fatto passare dal leader Pd – ehi, ragassi: io sono uno sobrio ed equilibrato come Hollande e non sono un pazzo scatenato con manie di grandezza come Berlusconi o come Renzi – i fatti dimostrano che anche a Bersani, a guardar bene, non è sfuggito un concetto semplice: che sia impensabile oggi rinunciare a una minima personalizzazione della politica. E così se è vero che Bersani è stato il primo leader ad aver annunciato che alle politiche non avrebbe mai messo il nome sotto il simbolo del partito è anche vero che lo stesso Bersani ha fatto una serie di scelte che vanno in una direzione opposta. Scelte, per esempio, come quella di dar vita a una mastodontica campagna di comunicazione con manifesti giganti in tutta Italia e con al centro il suo faccione simpatico, le maniche di camicia arrotolate e le ragioni per cui la sinistra doveva cominciare a “rimboccarsi le maniche” (anno 2010). Scelte, ancora, come quella di inaugurare una campagna elettorale senza volere nessun altro leader accanto a sé sul palco (Reggio Emilia, settembre 2012: nessuno lo aveva mai fatto prima). Scelte, per finire, come quella di mettere il proprio volto in tutti i manifesti e volantini elettorali e di non fare invece come il tiranno Renzi che ha tappezzato sì l’Italia con solo il suo nome ma senza mettere quasi mai immagini del proprio volto. Scelte che insomma dimostrano che il segretario – pur avendo capito che uno dei modi migliori per non far digerire Renzi alla sinistra era quello di dipingerlo come un aspirante despota – ha in un certo senso una propensione naturale a investire risorse sulla sua persona. E considerando che il voto di domani potrebbe regalarci una settimana in più di battaglia elettorale chissà che su questo terreno, anche per Bersani, il meglio non debba ancora venire.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.