In confronto Gaza è niente
"Maestà dovremmo clonarla”, disse Barack Obama a re Abdullah II di Giordania durante una cena, nell’estate del 2008. Il sovrano hashemita sorrise e un consigliere sussurrò a un altro: “Quando serve, gli americani possono essere dolci come baklawa”. Non era il primo colloquio tra il senatore democratico e il sovrano hashemita, si erano già incrociati un paio di volte a Capitol Hill, ma quell’incontro fu significativo.
"Maestà dovremmo clonarla”, disse Barack Obama a re Abdullah II di Giordania durante una cena, nell’estate del 2008. Il sovrano hashemita sorrise e un consigliere sussurrò a un altro: “Quando serve, gli americani possono essere dolci come baklawa”. Non era il primo colloquio tra il senatore democratico e il sovrano hashemita, si erano già incrociati un paio di volte a Capitol Hill, ma quell’incontro fu significativo. Amman era una tappa del tour mediorientale di Obama, un viaggio importante per le credenziali di un leader digiuno di politica estera. In questi casi ogni parola conta e, carinerie diplomatiche a parte, l’ammirazione nei confronti di re Abdullah apparve spontanea (tanto che, di ritorno negli Stati Uniti, Obama parlò delle lezioni che aveva imparato dal re giordano) ed era avvalorata da un sentimento generale più che condiviso.
Dal trattato di pace con Israele nel 1994, per le cancellerie occidentali la Giordania è stata (quasi) sempre dalla parte giusta della storia e il suo sovrano ha il volto del leader arabo ideale: aperto, cosmopolita, nemico tanto del radicalismo islamico quanto del terrorismo, con l’atout di una bella moglie che offre al mondo l’immagine di una donna musulmana à la page, intelligente e moderna. Poi è arrivata la primavera araba e anche il sovrano illuminato è finito sotto il microscopio. Dal 2010 la pagella di Freedom House sulla Giordania recita “non libera”. Per Washington re Abdullah è un alleato, e quelle che agli occhi dei suoi oppositori sono travi continuano a essere pagliuzze. Tuttavia il pericolo che il regno hashemita sia la prossima tessera del domino regionale a cadere è ormai una variabile presa spesso in considerazione negli scenari degli analisti internazionali. Il Fronte d’azione islamico, braccio politico dei Fratelli musulmani in Giordania, alza il tiro guardando all’Egitto e sperando nella caduta di Bashar el Assad in Siria. Nel frattempo l’intesa con i clan tribali che da sempre costituisce l’ossatura del potere hashemita traballa, il deficit di bilancio ha raggiunto 3 miliardi di dollari e l’Arabia Saudita – che nel 2011 ha rimpinguato le esauste finanze del regno con un’iniezione di capitali da 1,4 miliardi di dollari – non apre il portafoglio.
Secondo fonti giordane del Foglio a Vienna, i petrodollari del Golfo tardano ad arrivare perché Amman non coopera sul dossier siriano come vorrebbe Riad. Re Abdullah è stato il primo leader arabo a invitare Assad a lasciare il potere. La Giordania ha ospitato decine di migliaia di rifugiati e accolto circa 1.200 dissidenti di regime (ex poliziotti, soldati, generali e funzionari di Assad) in un compound superprotetto nel deserto. Ma nel contesto della Lega araba, re Abdullah è stato renitente all’ipotesi di un coinvolgimento armato in Siria e non è un mistero che l’Arabia Saudita prema sulla Giordania affinché renda le sue frontiere più porose al passaggio di ribelli e jihadisti.
Secondo il Wall Street Journal, Amman inizia a capitolare: armi e munizioni dirette all’opposizione siriana circolerebbero già dal confine giordano a quello siriano. Ma le casse giordane continuano a soffrire, le linee del fronte intorno ad Aleppo bloccano le tradizionali vie commerciali dell’export giordano e gli attacchi al gasdotto del Sinai hanno fatto impennare la bolletta energetica privando il regno di una fonte di combustibile a basso costo. L’anno scorso il Consiglio di cooperazione del golfo (Ccg) ha ammesso la Giordania tra i suoi membri, ma l’appartenenza al club non ha sortito la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Nonostante la promessa di finanziare il regno con 5 miliardi di dollari in cinque anni, ad Amman sono arrivati soltanto 250 milioni, briciole per i ritmi di spesa giordani. Lunedì il ministro degli Esteri degli Emirati arabi uniti, Sheikh Abdullah bin Zayed al Nahayan, ha assicurato che il Ccg ha intenzione di contribuire ad abbassare il deficit del regno hashemita, ma “ci vuole tempo”.
Dopo quasi due anni di manifestazioni a bassa intensità, il tempo è proprio quello che manca al sovrano giordano. Il Fondo monetario internazionale ha promesso al regno aiuti per 2 miliardi di dollari ma esige politiche di austerity, una prova del nove per dimostrare che il sovrano hashemita è davvero un riformatore. Per due volte il governo ha tentato di tranciare i sussidi ai carburanti e all’elettricità, ma i tagli sono stati revocati dopo manifestazioni e scontri piuttosto violenti per gli standard giordani. La settimana scorsa il primo ministro, Abdullah Ensour, ci ha riprovato. Il Fronte d’azione islamico ha invitato i suoi appartenenti a protestare (ma i suoi leader non sono scesi in piazza), ci sono stati disordini in molte città giordane, un morto, 75 feriti e slogan come “riforma o vattene”.
Proprio mentre nel regno la tensione era al suo acme è scoppiata la guerra tra Israele e Hamas, l’ennesima pessima notizia per re Abdullah che osserva inquieto anche il montare della tensione in Cisgiordania. Fonti diplomatiche del Foglio ad Amman spiegano che il sovrano hashemita ha dedicato molti sforzi negli ultimi due anni all’apertura di un negoziato israelo-palestinese. “Colloqui su colloqui, certo, le aspettative erano modeste, ma gli esiti sono stati ancora peggiori. La verità è che re Abdullah non si fida di Benjamin Netanyahu e dubita che la soluzione a due stati sarà mai una sua priorità”. E ogni morto a Gaza rafforza il partito ostile alla normalizzazione.
Dall’inizio della primavera araba i gruppi che si oppongono al trattato di Wadi Araba del 1994 sono diventati più forti. Secondo il Jerusalem Post l’anno scorso le esportazioni di prodotti agricoli verso il regno hashemita sono diminuite del 25-30 per cento perché gli ambienti anti normalizzazione hanno iniziato a diffondere i nomi degli importatori giordani. Sempre nel 2011 il quotidiano Jordan Times ha pubblicato un rapporto secondo il quale 17 anni dopo la firma del trattato di pace la maggior parte dei giornalisti giordani considera Israele un paese nemico. A settembre, dopo tre anni di rappresentanza vacante, Walid Obeidat, il nuovo ambasciatore giordano in Israele, è partito per Gerusalemme. Per ritorsione, la sua tribù, una delle più grandi e influenti del regno, lo ha espulso. Una censura che oltre a colpire l’ambasciatore ha evidenti ricadute sul rapporto tra re Abdullah e gli Obeidat.
Israele non è l’unico nodo che oppone il sovrano alla sua tradizionale roccaforte di consenso. Dieci anni di liberalizzazioni hanno eroso i confini del settore pubblico dominato dai transgiordani. Palestinesi sofisticati e cosmopoliti frequentano il palazzo reale e costruiscono ville hollywoodiane ad Abdoun, il quartiere più esclusivo della capitale. La prima regola che scoprono i giornalisti in Giordania è che ci sono cinque totem da non violare: Dio, il re, l’esercito, il denaro e l’intelligence. In questi mesi sono caduti come birilli. Dopo aver scaricato sulla regina Rania ogni possibile malevolenza, è infine arrivato il turno anche di re Abdullah, i veterani militari hanno costituito un movimento che è sceso in piazza insieme alle altre forze dell’opposizione e l’ex capo dell’intelligence Mohammed Dahabi è stato punito con una condanna esemplare per corruzione. La corruzione è un altro dei temi caldi che agitano e uniscono le piazze giordane, ma tra gli avversari di re Abdullah continuano a dominare i distinguo. I Fratelli musulmani vogliono meno corruzione, meno regime e una legge elettorale che consenta loro di incidere sulla società giordana; anche i clan tribali vogliono meno corruzione, ma al contrario del Fronte d’azione islamico sognano più e non meno regime, garanzie che i privilegi consolidati non saranno intaccati e che il neoliberismo in voga a corte sarà una volta per tutte arginato. Per la fratellanza la legge elettorale è un tema per cui vale la pena salire sulle barricate, per i transgiordani, invece, qualsiasi modifica delle regole significa uccidere la Giordania e consegnare ai palestinesi le chiavi del cosiddetto Hotel Hashemite Palestine. Più che in qualsiasi altro passaggio dei suoi tredici anni al comando, re Abdullah è consapevole che lo scarto tra le intenzioni e i fatti sta minando da un lato la fiducia dell’anima più progressista del suo regno (giovani, intellettuali, liberali) e dall’altro la lealtà di quella più conservatrice.
“Fahimtkum” significa “ti capisco”: fu la parola che pronunciò l’ex presidente tunisino Ben Ali in un discorso alla nazione in cui assicurava di aver sentito la voce della Tunisia e di averla ascoltata. In Giordania la frase “Ora ti capisco” (Al’an fahimtkhum) è divenuta un cult e ha ispirato una commedia satirica dove, tra allusioni più o meno esplicite, vengono passati in rassegna gli scandali economici degli ultimi anni. Re Abdullah è andato a vedere lo spettacolo al Teatro Concord di Amman e, stando alle cronache della serata, si è molto divertito. La pièce non risparmiava frecciate al governo, “al sistema” e tra le righe ad Abdullah, l’innominato che, secondo molti, non poteva non sentirsi chiamato in causa. Ma il re cosa ha capito?, si sono domandati i commentatori.
“La primavera araba ha rappresentato un brusco risveglio – dice l’economista Yusuf Mansour – ma la Giordania non si è mai svegliata”. Ossia il re o non l’ha mai capita o non l’ha mai ascoltata. Non che non ci sia stato un gran parlare di riforme, anzi. E’ difficile trovare un altro leader del mondo arabo che abbia parlato con più convinzione e consapevolezza dell’esigenza di cambiare passo e di farlo in fretta. Eppure, in Giordania, dal ’99 a oggi, come in un gioco di sedie musicali si sono succeduti 13 primi ministri e, a ogni nuova investitura, il re ha espresso frustrazione per la mancanza di risultati e fiducia nell’avvenire. Secondo il professor Sean Yom della Temple University, “la transizione democratica è una fantasia che vive più nelle menti dei liberali giordani che nel palazzo reale”. I primi ministri accettano missioni impossibili, è previsto che poi siano redarguiti, falliscano e siano sollevati dal loro mandato, fino a quando altri esecutori non ripartiranno con un altro giro di giostra. “In questi anni abbiamo fatto due passi avanti e uno indietro”, ha ammesso re Abdullah. C’è da chiedersi se in questi tempi di rivolte e rivoluzioni ci sia ancora spazio per i tempi biblici del “riformismo dall’alto”.
Non c’è persona più qualificata a rispondere a questo interrogativo di Marwan Muasher. Primo ambasciatore della Giordania in Israele (’94-96) capo della diplomazia hashemita negli Stati Uniti e poi plenipotenziario agli Esteri, Muasher è stato anche il regista della National Agenda, il più ambizioso tentativo di riforma democratica che la Giordania abbia conosciuto. Al Foglio dice che “la pietra tombale di quel progetto fu rappresentata dagli attentati del 9 novembre 2005, l’11 settembre giordano: da quel momento la parola d’ordine è stata sicurezza”. Muasher ha abbandonato gli incarichi istituzionali ed è approdato al Carnagie Endowment di Washington. Crede ancora che la democrazia nel mondo arabo sia possibile e che in Giordania la corona possa svolgere un ruolo fondamentale in questa evoluzione, pensa anche, però, che le misure di rinnovamento costituzionale annunciate ad Amman siano insufficienti. “La legge elettorale va cambiata. Non penso affatto che i palestinesi cannibalizzeranno la Giordania e proprio perché lo scenario è complicato c’è bisogno di un approccio più inclusivo – spiega Muasher – Non si possono imporre sacrifici ai giordani tutti senza che vengano fatti sentire parte di un progetto”. La Giordania potrebbe ancora rappresentare un modello vincente di “riformismo dall’alto”, la monarchia è ancora percepita come legittima, le minoranze vengono rispettate e, per gli standard regionali, le politiche sociali sono liberali. Il dipartimento di stato americano ha finora sostenuto la dinastia hashemita e invitato i manifestanti alla moderazione, ma il perdurare dello stallo democratico è pericoloso. La nazione che Winston Churchill si vantava di aver creato con un tratto di penna, in un pomeriggio, al Cairo, ha superato molte tempeste ma, dice Muasher, “se l’occidente è stato disposto a perdere Mubarak, la cui presenza era strettamente legata alla sicurezza di Israele, allora vuol dire che nessuno è salvo”.
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