Due correnti, due padrini

Ma quanto si urlano al telefono questi leader (divisi su tutto) di Hamas

Daniele Raineri

Chi torna quando ormai sembrava bollito, chi perde e non si rassegna, chi mantiene la posizione. Gli otto giorni di guerra a Gaza cambiano la mappa del potere tra i capi palestinesi di Hamas, nella Striscia di Gaza, e di Fatah, a Ramallah. Si parte da un articolo del quotidiano arabo al Jarida, dal Kuwait: scrive che il vero obiettivo dello strike israeliano che ha dato inizio agli otto giorni di guerra a Gaza non era in realtà Ahmed Jaabari, comandante dell’ala militare di Hamas, ma il capo del movimento che controlla la Striscia, Ismail Haniyeh.

    Chi torna quando ormai sembrava bollito, chi perde e non si rassegna, chi mantiene la posizione. Gli otto giorni di guerra a Gaza cambiano la mappa del potere tra i capi palestinesi di Hamas, nella Striscia di Gaza, e di Fatah, a Ramallah. Si parte da un articolo del quotidiano arabo al Jarida, dal Kuwait: scrive che il vero obiettivo dello strike israeliano che ha dato inizio agli otto giorni di guerra a Gaza non era in realtà Ahmed Jaabari, comandante dell’ala militare di Hamas, ma il capo del movimento che controlla la Striscia, Ismail Haniyeh. Secondo al Jarida – edizione di lunedì – gli israeliani sono riusciti a scoprire dov’era il solitamente cautissimo Jaabari e su quale delle tre auto a sua disposizione si muoveva perché i vertici di Hamas per un giorno hanno abbandonato le precauzioni e hanno cominciato a chiamarsi inviperiti su telefonini non protetti. Il motivo? Per la fonte non meglio identificata del giornale, il capo Haniyeh e il suo vice Mahmoud al Zahar erano furiosi perché Jaabari aveva dato l’ordine di perquisire la casa dello stesso Haniyeh, su istruzioni di Khaled Meshaal, capo del politburo di Hamas, che vive all’estero, fuori dalla Striscia. Jaabari aveva il compito di trovare prove dei legami troppo stretti della leadership palestinese di Gaza con l’Iran. Nel parapiglia telefonico che ne era seguito si erano infilati gli israeliani sempre all’erta e in ascolto, che non vedevano l’ora di scoprire la posizione dei capi – per colpire. Conferme a questa versione anonima? Nessuna, ma contiene elementi di verità.

    La leadership di Hamas è spaccata sull’Iran. Lo era già da tempo, perché Haniyeh rimprovera a Meshaal di intervenire da fuori, dall’esilio dorato di Damasco, senza esporsi al rischio di vivere a Gaza. Da quando Hamas ha dovuto sloggiare da Damasco – dopo anni di ospitalità – perché sta con i ribelli contro il presidente Bashar el Assad, questa frattura dentro Hamas si è allargata. Meshaal rinfaccia ai capi dentro la Striscia di essere troppo vicini all’Iran, che è alleato con Assad, che in Siria massacra i sunniti (come Hamas) e anche i profughi palestinesi.

    I leader di Hamas dentro la Striscia rispondono che l’aiuto del governo iraniano  è essenziale nella guerra contro Israele. Non hanno torto. Secondo le analisi arrivate dopo il cessate il fuoco, il gruppo palestinese deve sparare in media 250 razzi per uccidere un singolo israeliano. Ha così bisogno delle armi provenienti dall’Iran che il traffico è già ripreso, c’è una nave sospetta in navigazione nel Mediterraneo e altre che venerdì attraccheranno ai moli del Sudan. A Gaza campeggiano cartelloni che rendono merito pubblicamente dell’aiuto arrivato dall’Iran, ma c’è da fare presto, perché in questo momento gli arsenali o sono vuoti o sono stati bombardati.

    Meshaal ha spostato il suo quartier generale da Damasco al Cairo e allo scoppio della guerra sembrava ormai messo da parte, bollito, rilasciava dichiarazioni vaghe su Gaza da una conferenza islamica a Khartoum, in Sudan. I negoziati in Egitto con Israele – non diretti, ma mediati dai servizi segreti del Cairo – lo hanno riproiettato al centro della politica palestinese, si è dimostrato di nuovo indispensabile nel suo ruolo da fuori, la tregua è merito suo quanto di chi è rimasto dentro Gaza. E’ previsto il suo arrivo a Gaza in visita a dicembre.

    Haniyeh, dopo la visita ufficiale dell’emiro del Qatar – che ha promesso investimenti per 400 milioni di dollari –  durante i bombardamenti ha incassato anche le visite di solidarietà del primo ministro egiziano e di altri ministri del mondo islamico. Una legittimazione ufficiale insperata. Chi resta escluso da questi successi diplomatici è Abu Mazen, che ha poco da mostrare ai palestinesi della Cisgiordania. Per questo punta tutto sul riconoscimento unilaterale della Palestina alle Nazioni Unite, il voto è previsto domani a New York, per diventare il leader del traguardo storico e far dimenticare il fantasma di Arafat, che anche da morto fa parlare più di lui.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)