Sopravvivere al mostro

Paola Peduzzi

"Hillary è un mostro. E’ disposta a fare qualsiasi cosa, la guardi e dici ehi, ma quanto è falsa, tutta questa disonestà la rende davvero sgradevole”. Era il marzo del 2008, le primarie per il candidato democratico alla Casa Bianca erano in corso, Hillary Clinton contro Barack Obama, e una signora irlandese (arrivata in America a nove anni, nel 1979, perché sua madre voleva divorziare da suo padre, ma in Irlanda non si poteva) con i capelli lunghi rossi, gli occhi verdi e le lentiggini se ne uscì con questa cosa del mostro.

    "Hillary è un mostro. E’ disposta a fare qualsiasi cosa, la guardi e dici ehi, ma quanto è falsa, tutta questa disonestà la rende davvero sgradevole”.
    Era il marzo del 2008, le primarie per il candidato democratico alla Casa Bianca erano in corso, Hillary Clinton contro Barack Obama, e una signora irlandese (arrivata in America a nove anni, nel 1979, perché sua madre voleva divorziare da suo padre, ma in Irlanda non si poteva) con i capelli lunghi rossi, gli occhi verdi e le lentiggini se ne uscì con questa cosa del mostro.
    La signora è Samantha Power, punto fermo dell’establishment liberal americano meglio conosciuta come “genocide chick”, la ragazza dei genocidi: giornalista nei Balcani negli anni Novanta, Power ha vinto un Pulitzer per un libro molto bello sul rapporto difficile tra l’America e i genocidi, “A Problem from Hell. America and the Age of Genocide”, pubblicato nel 2002. Power era stata tra i primi fan di Obama, e lui giustamente la assunse come consigliera di politica estera nel suo staff elettorale.
    Fino a quel marzo fatale era andato tutto bene, Samantha si era persino innamorata, aveva trovato l’uomo della vita con cui avrebbe poi formato una delle coppie più glamour e potenti dell’East coast (lui è Cass Sunstein, economista). Poi a marzo Power andò in Scozia per promuovere il suo ultimo libro su Sérgio Vieira de Mello, l’inviato dell’Onu ucciso a Baghdad nell’agosto del 2003, e disse a un giornalista dello Scotsman quella frase sul mostro. I giornali conservatori impazzirono di gioia, il Daily News la mise in copertina vestita da sera con il titolo “Pretty Dumb!” e iniziò quel circo mediatico “viral” che costrinse Samantha prima a scusarsi e poi a dimettersi.
    Obama accettò le dimissioni perché non poteva fare altro e perché già Hillary aveva subìto ogni genere di angheria sul suo essere una signora di una certa età, ci mancava giusto l’etichetta di mostro messa dalla Power. Ma non era affatto contento, Obama, e soprattutto era convinto che non ci fosse bisogno di dimettersi. Si era trattato di un semplice “cat fight”, nulla di più – gli dicevano i suoi collaboratori – uno scontro interno tra clintoniani, ex clintoniani, interventisti, realpolitiker. Faide democratiche. Faide tra donne democratiche.

    Se quella del dipartimento di stato americano è una quota rosa, ci rimangiamo tutto quello che abbiamo detto, scritto, pensato, orrendamente twittato contro le quote rosa. E’ una quota meravigliosa, creatasi senza che nessuno se ne accorgesse, come spesso accade con le faccende gestite dagli uomini: la diplomazia americana, in tutte le sue forme, è costruita dalle donne, non soltanto per quel che riguarda il posto d’onore. Dal 1997 a oggi, Foggy Bottom è stato guidato dalle signore, con l’eccezione di Colin Powell, segretario di stato durante il primo mandato di Bush – anni durissimi di attentati, di guerre, di fratture internazionali, anni da stomaci forti, chissà che cosa sarebbe successo se fosse stata una donna a presentarsi all’Onu sventolando fialette di antrace come smoking gun per il cambio di regime a Baghdad.
    La parentesi di Powell s’è sentita, ma le dame di Foggy Bottom hanno continuato a tessere la loro tela di rapporti di potere e visibilità internazionale, iniziata con Madeleine Albright, portata avanti da Condoleezza Rice, poi dal mostro Hillary Clinton e ora, forse, dall’“altra Rice”, Susan, quella democratica. C’è un’altra parentesi, in questa storia, ed è quella della repubblicana Condi: la prima donna afroamericana al dipartimento di stato ha interrotto il dominio femminile e liberal della politica estera degli Stati Uniti. Ma per poco, e da allieva del padre di Madeleine Albright (e già si sente nei palazzi della politica “my Rice is better than your Rice”: doveva succedere).

    Questa non è soltanto una storia di donne, di liti fra donne, di amicizie fra donne, di dispetti e pianti: è anche la storia della dottrina democratica americana nel mondo, di come s’è evoluta, e perché.
    Susan Rice è la protagonista del momento. Barack Obama vuole nominarla a Foggy Bottom al posto di Hillary, l’attuale segretario di stato che ha deciso di starsene un po’ tranquilla, magari per fare la nonna, se Chelsea si decide a mettere al mondo un figlio, o magari per riposare un paio d’anni e poi riprovarci con la Casa Bianca nel 2016. La candidatura di Susan Rice non è forte: ambasciatrice americana all’Onu, Rice ha voluto mettersi in prima fila sull’affaire Bengasi – l’omicidio, l’11 settembre scorso, dell’ambasciatore americano in Libia, Chris Stevens. Fin da subito l’Amministrazione è stata vaga e ambigua sulla ricostruzione dei fatti di quella tragedia e Rice ha deciso di presentarsi come il volto e la voce della Casa Bianca nei talk-show televisivi. L’ambizione di Rice era chiara: sistemo la faccenda Bengasi e mi lancio verso il dipartimento di stato come la più competente, la più affidabile, la più coraggiosa.
    Il piano è fallito. Ancora oggi non è chiaro che cosa sia successo davvero a Bengasi e ancora oggi Rice è sott’attacco dei repubblicani che vogliono ostacolare la sua nomina al Congresso. Obama non arretra, anzi continua a dimostrare in pubblico – in modi poco ortodossi per lui che è sempre così gelido – la sua stima per Rice e molti sono convinti che il presidente abbia ormai deciso di andare allo scontro pur di difendere Susan Rice (molti sono altrettanto convinti che vincerà lui, alla fine, “è la classica tempesta in un bicchiere d’acqua su cui Washington è tanto specializzata”, ha scritto un giornalista su Twitter).
    Perché Obama, con tutti i guai che ha, dovrebbe affrontare una guerra per Rice? Il primo motivo, banalissimo, è che è una rappresentante degna della famosa quota rosa: nella politica estera dal secondo mandato clintoniano, in quel National Security Council che fa da raccordo tra la sicurezza nazionale e la politica estera, Rice, classe 1964, ha una grande esperienza. Quando non ha lavorato per il governo, lo ha fatto per i think tank. E’ preparata. Il secondo motivo, più malizioso, è che Rice ha raccomandazioni forti: la prima, storica, è quella di Madeleine Albright, ex segretario di stato di Bill Clinton, che la portò con sé negli ambienti del governo (il primo contatto con Madeleine Rice lo ebbe a scuola: era compagna di classe di una figlia dell’Albright). L’altra raccomandazione è quella di Valerie Jarrett, la donna più potente della Casa Bianca dopo la first lady Michelle, la chief of staff ombra che suggerisce al presidente come fare, che cosa fare e quando fare – e lui tendenzialmente l’asseconda. La Jarrett è amica di Susan Rice, ed è lei ad aver suggerito a Rice di andare in tv a farsi bella su Bengasi: Rice si fida talmente tanto di Valerie che non ha nemmeno verificato i fatti, e così si è ritrovata in diretta tv ad accumulare figuracce. Forse adesso Valerie si sente un po’ in colpa, visto che con quell’orrenda performance Rice s’è giocata buona parte della sua credibilità, e sta facendo pressioni su Obama affinché non si tiri indietro: i numeri al Senato si possono ottenere, il rischio è basso, fa’ di Rice una questione di principio.

    Qual è il principio di Rice? Anche se a guardarla e a sentire i nomi dei suoi protettori non si direbbe, Susan Rice è una cattiva ragazza. E’ quanto di più antidiplomatico vi possa venire in mente. Maureen Dowd, columnist del New York Times che sta massacrando Rice recuperando quella perfidia che solitamente riserva soltanto ai Clinton, ha sottolineato la fama da “bull-in-a-china-shop”, da elefante in un negozio di cristalli, della candidata alla successione del mostro. Dana Milbank del Washington Post ha ricordato alcuni aneddoti: come quella volta che Rice, allora assistente della Albright, durante un incontro tra funzionari senior del dipartimento di stato alzò il dito medio niente meno che a Richard Holbrooke, il più super dei superdiplomatici (in termini di peso specifico nell’establishment) morto due anni fa. Seguirono insulti, dicono i testimoni: soltanto l’intercessione di Samantha Power, amica stretta di Holbrooke poi ritrovatasi con Rice a consigliare l’Obama candidato del 2008, un decennio dopo avrebbe riportato la pace tra la ragazzina irriverente e il peso massimo di Foggy Bottom.
    Ci sono altri racconti piuttosto divertenti, come gli attacchi a John McCain (che oggi le sta restituendo l’offesa guidando la campagna contro la sua candidatura al dipartimento di stato) e le liti con tutti al Palazzo di vetro, dagli europei ai russi, quest’ultimi tanto innervositi che sui giornali di Mosca sono usciti articoli in queste settimane sul perché la Rice non può fare il segretario di stato. C’è poi una storia che risale sempre agli anni con la Albright e che fu tirata fuori dal giornalista David Rose nel 2002 su Vanity Fair. L’articolo si intitolava “The Osama Files” e sosteneva che, nel 1996, il Sudan fosse stato disposto a consegnare Osama bin Laden, che allora viveva lì, all’America. Stando alle dichiarazioni dell’allora ambasciatore clintoniano in Sudan e alle ricostruzioni reperibili nel libro del 2004 “Losing Bin Laden: How Bill Clinton’s Failures Unleashed Global Terror”, gli Stati Uniti non colsero l’opportunità e anzi rifiutarono le offerte di collaborazione dell’intelligense sudanese e di altri paesi della regione per stanare l’ex capo di al Qaida. Siamo in territorio da teoria del complotto: secondo questo libro, Clinton avrebbe deliberatamente deciso di non prendere Bin Laden. Ma se questo pare eccessivo, è comunque vero che fino al 2001 la minaccia terroristica fondamentalista islamica è stata sottovalutata. Da tutti. Anche da Susan Rice.

    La dichiarazione più antidiplomatica che potesse uscire dalla bocca di Rice risale agli anni del genocidio in Ruanda. E’ riportata nel libro sui genocidi scritto da Samantha Power (dalla traduzione dell’edizione italiana per Baldini Castoldi Dalai): “A una teleconferenza tra agenzie governative, Susan Rice, stella emergente del Consiglio di sicurezza nazionale che lavorava sotto Richard Clarke, sconcertò alcuni dei funzionari presenti quando chiese: ‘Se usiamo la parola ‘genocidio’ e diamo l’impressione di non star facendo niente, quale sarà l’effetto sulle elezioni (di metà mandato) a novembre?’. Il tenente colonnello Marley ricorda l’incredulità dei colleghi del dipartimento di stato. ‘Potevamo immaginare che la gente si ponesse questa domanda – dice – ma non che la formulasse davvero’. La Rice non ricorda l’incidente, ma ammette: ‘Se lo dissi, fu del tutto inopportuno, come pure non pertinente’”.
    Qui finisce la testimonianza di Power, ma in una dichiarazione negli anni successivi Rice disse: “Giuro su me stessa che se mai mi troverò nella stessa situazione, mi metterò dalla parte di chi sosterrà azioni drammatiche, finendo all’inferno se sarà necessario”. La più antidiplomatica delle diplomatiche americane stava formulando la dottrina dell’interventismo liberale.

    Questo è il principio di Rice, anche se forse Barack Obama non l’ha capito, e forse nemmeno lo condivide (in effetti: qual è il principio di Obama?). Rice è un’interventista: sarà che deve recuperare quel senso di colpa originario che poteva costarle la carriera, ma da allora ha sposato la dottrina formulata dalla sinistra degli anni Novanta, senza mai spingersi fino ai terreni calpestati da un Tony Blair, s’intende: Rice non era a favore del regime change di Saddam Hussein in Iraq, anzi. Così come non è a favore di un intervento in Iran e, assieme alla sua amica Valerie Jarrett, sostiene la politica del dialogo, ma ha comunque studiato e ottenuto all’Onu il pacchetto di sanzioni più duro di sempre. Il suo è un interventismo di sinistra più che liberale, la differenza è sottile ma importante. E anche un po’ avventuriero, se si pensa alla Libia. E’ Susan Rice che, assieme alla solita Samantha Power, è riuscita a convincere prima Hillary Clinton e poi Barack Obama della necessità di un regime change a Tripoli. Le valchirie della guerra, furono soprannominate le tre signore, e si giocarono per sempre il rapporto con il Pentagono che, più concretamente, sosteneva che non fosse il caso di fare una guerra là, che ci pensassero gli europei a sistemare le faccende nel loro Mediterraneo.
    L’interventismo di sinistra oltre a essere partigiano – vale soltanto per certe cause e a certe condizioni – funziona anche a singhiozzo, se si pensa a quanto sta accadendo in questo ultimo anno e mezzo in Siria, sotto gli occhi di tutti, Obama, Rice, Hillary. Ed è forse in questo singhiozzo che s’infila la battaglia di Obama in difesa di Rice: se una dottrina non ha continuità, non è una dottrina. E’ applicazione di schemi volta per volta, a seconda delle circostanze. Obamismo puro.

    Hillary non difende la candidatura di Rice. Le due non si amano, non foss’altro perché Rice è amica di quella Power che ha rifilato a Hillary l’etichetta di mostro. La stessa Rice, in quelle primarie disastrose per Hillary, chiese conto all’ex first lady delle sue posizioni così sbagliate su Iraq e Iran. Sempre secondo il già citato Milbank, Clinton s’è vendicata di quell’affronto nel 2010, dopo aver ottenuto dal ministro degli Esteri russo l’appoggio all’Onu per un pacchetto di sanzioni all’Iran. La Casa Bianca voleva che fosse Rice a fare l’annuncio (faceva parte, maligna Milbank, di quella campagna per rafforzare il profilo di Rice con viaggi all’estero e apparizioni televisive) ma un collaboratore di Hillary trovò il senatore John Kerry al Senato durante un’audizione che non c’entrava nulla con l’Iran, e riuscì a fargli fare una domanda sulle sanzioni a Hillary che rispose giuliva e bruciò così l’annuncio di Rice (Kerry è l’altro nome che circola per il dipartimento di stato, ma data l’ostinazione di Obama con Rice è probabile che Kerry sia destinato ad altro, al Pentagono dicono in molti: c’è comunque poco da stare allegri).
    Hillary non difende la candidatura di Rice, ma nemmeno la attacca. Si gode gli ultimi mesi al dipartimento di stato, a caccia anche lei di una legacy, di un’eredità: i detrattori sostengono che la segretaria di stato è sopravvalutata, è la star di un’Amministrazione che si accontenta di poco, non ha portato a casa nulla di concreto, né una vittoria conclamata né una dottrina. Su certi temi è inevitabile aspettare il giudizio della storia (anche di Bush ora si dice che non ha fatto poi così male), ma intanto Hillary è una donna rinata, si mette le mollettine nei capelli, non ha più il complesso della pettinatura, si fa vedere struccata con tutte le sue rughe e tutta la stanchezza di un lavoro faticoso, e se ne frega. Non sarà una consolazione per i ribelli siriani, ma è l’emancipazione di una donna e di una politica da una storia che l’ha vista condannata da tutti, dagli uomini, dalle femmine, dai compagni di strada e da quello di vita. E Hillary è anche la signora che, pur avendo davanti due “rivali” come Rice e Power nella gestione del regime change a Tripoli, ha messo la politica davanti ai personalismi: se è la cosa giusta da fare, facciamola. Un’alzata di spalla, gli occhiali scuri e un cerchietto in testa. E mostri sarete voi.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi