In morte del gruista
Che poi volare via con una gru non è come andare in aria con una cicogna. E la gru non è il bellissimo, leggero uccello dalle gambe sottili che afferra l’aria e dentro l’aria sale. La gru è metallo, è ferro, è viti e ruggine, vetro opaco – il culo che lì sopra sobbalza, le orecchie devastate dal rumore. Su una gru sei in alto, ma certo volare su una gru senza ali è come precipitare all’inferno. E sopra una gru stava Francesco, operaio di 29 anni.
Che poi volare via con una gru non è come andare in aria con una cicogna. E la gru non è il bellissimo, leggero uccello dalle gambe sottili che afferra l’aria e dentro l’aria sale. La gru è metallo, è ferro, è viti e ruggine, vetro opaco – il culo che lì sopra sobbalza, le orecchie devastate dal rumore. Su una gru sei in alto, ma certo volare su una gru senza ali è come precipitare all’inferno. E sopra una gru stava Francesco, operaio di 29 anni – “la cabina è rivolta verso terra, dietro il sedile c’è una parete, il mare non si vede. Se avesse guardato il mare e visto arrivare il tornado, avrebbe forse avuto il tempo di fuggire… Così…”, hanno raccontato i suoi compagni – “era un gruista schiavo delle glandole / ma s’intendeva molto di carrucole”, avrebbe cantato Enzo Jannacci. Così a 29 anni è volato via – dentro il ventre della sua gru di metallo e pulsanti e piedi pesanti e ali niente, che il vento ha sollevato come il vento solleva le gru con le ali, e dentro la melma del mare lì a fianco è precipitato, e ieri “è stato recuperato dai sommozzatori dei vigili del fuoco. Il corpo era all’interno della cabina della gru finita in mare” (Corriere), “il cadavere era all’interno della cabina della gru finita in mare due giorni fa e individuata già ieri sera a 24 metri di profondità, ricoperta da uno strato di fango” (Repubblica). La sua tomba, la gru dal breve volo faticoso e dal precipitare nello schianto. La sua gru, “appeso a cento metri su nel ciel”, come suo sudario – ché lui “era un manovratore e quindi… manovrava / Quel gran bottone in ferro della gru / Lassù nella garitta lui sempre se ne stava / spostando le putrelle in su e in giù”.
Di tante facce e di tante storie e di tante parole intorno a questa tragica vicenda dell’Ilva – tra il lavorare e il poter vivere, una disperazione ripartita tra l’oggi e il domani: la polvere che cade come neve, e neve innocente però non è, così come gru che libera e leggera spicca il volo la gru volata via a Taranto non era – Francesco è il simbolo tragicamente perfetto: nella sua vita breve, nelle sue paure di cosa fare dei molti anni che ancora credeva di avere. Dal cielo così vicino al mare così melmoso – così che pure il mare che ha accolto il suo ultimo respiro non è mare come tutti noi crediamo sia il mare. E chissà se Francesco la pensava come il suo amico e collega di lavoro Cataldo ha raccontato su Repubblica ad Adriano Sofri: “Io tiro fuori da qui i mezzi per mantenere la mia famiglia, e mi batto come tutti, ma ti mentirei se non dicessi anche che nel mio intimo desidero con tutta la forza che questa fabbrica scompaia, e con lei questo modo di lavorare e di vivere insieme”. Chissà se i gruisti oggi sono felici e orgogliosi come lo era il gruista di Primo Levi, quello della “Chiave a stella”, Libertino Faussone detto Tino, di Francesco poco più grande, “è sui trentacinque anni, alto secco, quasi calvo, abbronzato, sempre ben rasato”, che girava il mondo e viveva molte avventure, come se un gruista potesse essere Corto Maltese, e dentro un universo quasi magico di chiavi inglesi e martelli e bulloni e porti e tralicci – ché Libertino le gru le montava, le innalzava verso il cielo, senza che il vento intorno si mutasse in furia e le facesse precipitare giù. Il libro di Levi è un elogio (era poco più di trent’anni fa, ma l’intero universo da allora pare inabissato, come la gru di Francesco nel porto di Taranto) alla preziosità del lavoro manuale – non ancora a quasi schiavismo ridotto, a un faticare che una volta la dignità scopriva e ora la dignità nasconde, non alla tortura esistenziale del precariato che devasta così tanti infiniti futuri – al montare e smontare, al curare e guarire le macchine come a volte non si fa più neanche con gli esseri umani. “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”, scriveva Levi scrivendo di Libertino detto Tino, gruista giramondo.
La storia di Francesco – volato via dentro un uccello di ferro pesante tonnellate e finito sepolto nel fango, sott’acqua – con la cronaca di oggi finirà, e il condolersi presidenziale e le lacrime dei compagni di lavoro, e la titolazione che man mano si farà più minuscola. Altro urge, dopo il gruista che con la sua gru il mare, come un involontario Ulisse, sfidò – e in pochi secondi di terrore e di stupore certo finì. Con il miracolo forse di accorgersi di poco – tra il volo che iniziava e il volo che finiva. Non come l’impiegato di Cechov, Cervjakòv, che “sentì rompersi qualcosa nelle viscere”, e così, “senza togliersi la divisa, si sdraiò sul sofà e morì” – così famigliare, una morte così come tante morti. Tra volo e cielo e mare, il gruista Francesco ha chiuso la partita – e siamo qui a parlarne perché la sua morte è stata tragica, e perché tragica, nelle cronache di questi mesi sembrava pure la sua vita (lavorativa). E allora è quasi bello pensare che sia andata diversamente – come diversamente era andata la sua vita da quella del collega letterario Libertino detto Tino – che sia almeno andata come andò al gruista di Jannacci, che scrutava le signorine nel grattacielo di fronte, “buongiorno signorina, permette? l’accompagno! / a fare un bel giretto sulla gru / nell’aria ce ne andremo come due cicogne / poi se vuole ci darem del ‘tu’”, e che forse cadde giù, o forse, e anzi quasi certamente verso il cielo salì, con la sua bella adagiata sui cuscinetti (fossero pure a sfera), “era un gruista schiavo delle glandole / adesso sta nel ciel con la sua sventola / sempre affacciata negli occhi del suo gruista / che bella vista affacciata negli occhi del suo gruista”. Un luogo dove neanche le polveri velenose possono salire – e da cui vedi magari il padrone che all’estero sta, all’erta e vigile sta!, con i soldi il padrone sta, e una rabbia di piazza e ciò che la vita quotidiana perde in speranza e acquista in stupefatta incertezza – dove il futuro pare anch’esso in volo, ma perso, ormai irraggiungibile, neanche dentro la schiuma del mare se ne trova traccia, piuttosto come un palloncino sfuggito che a terra non torna: mica è polvere, il palloncino che si credeva di avere al sicuro tra le dita con il suo esile filo. Cos’è il mondo (precario e oscuro) visto dall’alto di una gru lo raccontava, molti anni fa, un bel film di un giovane regista argentino, Pablo Tapero, nella sua Argentina di allora, così sinistramente simile all’Italia nostra di oggi – e il gruista Rulo s’inerpica sbattendosi da una parte all’altra del continente, cullando con il pensiero ciò che dietro si lascia, come quando era Paco Camorra e faceva il bassista in un gruppo pop-rock, e le note perse, come la vita deviata dal sogno, hanno questa pesantezza che neppure il cielo sopra la gru riesce in alcun modo a rendere più leggera.
Un morto, un altro – c’entra la forza della natura, stavolta, non quella della sventura dei giorni che adesso così spesso il lavoro sconsacra e sminuzza: non come pane per miti randagi, piuttosto pietanza per branchi famelici di predatori finanziari. Ma lo stesso era un operaio – toh, gli operai… Quelli dell’Ilva – incazzati, titubanti, incerti, spaventati, chissà se rassegnati, quelli a cui si va a domandare se di fame vogliono crepare, o non piuttosto di tumore più in là. Gli operai una volta erano una forza, persino un’aristocrazia (socialmente, politicamente, mediaticamente: ché operai si volevano fare pure i preti e gli studenti, figurarsi, e gli intellettuali in massa che dicevano di voler apprendere, volendo in realtà al solito instradare – e sempre e sola una differenza si palesava, solida e a intere epoche sopravvissuta, quella che il poeta Jacques Prevert individuò ed eternizzò: “L’operaio si lava le mani prima di pisciare e l’intellettuale dopo”), ora sono ristretti a un residuo giornalistico ed economico, e la saggezza che allora fu spinta sul bordo della disperazione che ovunque ora è. E perciò il peggio che tutti ora noi mostriamo, e di cui tutti con nuova partecipazione dibattiamo, l’antico orgoglio piega e fingere instupidamenti costringe: a farsi Isola dei Cassintegrati come Isola dei Disoccupati, oppure drammaticamente a provare a squarciare le vene in diretta televisiva, tragicamente a mutarsi in rogo nell’ombra dei reparti notturni (e almeno la consolazione di un caparbio dottor Guariniello), a inveire anziché a pretendere, a mettere più in scena la disperazione (che abbonda) che la speranza (che ormai…), a far l’ammasso, sempre più irrilevante, di quel che resta tra i “choosy” ministerialmente evocati e gli sconfortati ministerialmente prodotti – e intanto dentro ogni marchionnismo frullati. Una volta, persino negli oratori, mica solo nelle Camere del lavoro o nelle sezioni comuniste, la santità dell’operaio (la sacralità tutta della classe operaia) veniva esaltata e cantata. Se a sinistra si facevano dicitori delle lodi brechtiane – “Chi costruì Tebe dalle Sette Porte? Dentro i libri ci sono i nomi dei re. I re hanno trascinato quei blocchi di pietra?”, e sempre il pensiero rivolto non ai faraoni che nelle piramidi dimorarono nei millenni, ma agli schiavi che millenni fa creparono per edificarle; negli oratori preti e monache insegnavano a pargoli e chierichetti la poesia (dignitosamente perfetta, per dignitosa sacrestia) di Renzo Pezzani, dove Dio chiede a chi bussa alla sua porta di mostrare le sue mani – “L’operaio fa vedere / le sue mani dure di calli: / han toccato tutta la vita / terra, fuochi, metalli. / Sono vuote d’ogni ricchezza, / nere, stanche, pesanti. / Dice il Signore: Che bellezza! / Così son le mani dei Santi!”. Mani venerabili, quindi, quelle del metalmeccanico e del gruista, del saldatore e del manovale, del carpentiere e della lavandaia – per i fedeli. Mani onorabili – per la sinistra. E non fu forse Berlusconi, che allora, quando fu il momento del vero debutto, anziché questo attuale della mesta ripresa dopolavoristica, a consegnarsi a ogni svincolo stradale con l’appellativo di “Presidente operaio”, sorta di Di Vittorio brianzolo, pur se adesso gran invocazione si fa e gran disponibilità all’attruppamento di “imprenditori” – parola di cui un giorno si chiederà conto non meno di “attimino” ed “evento” – si dichiara.
Ognuno voleva essere operaio – ognuno, s’intende, voleva stare con gli operai, al voto operaio pensando, sul voto operaio sperando. Erano tanti, erano giovani, erano forti – e ora hanno smesso di pensare di andare in paradiso, e chissà adesso, ci fosse mai un remake, ma un remake certo non ci sarà, del mitologico film di Elio Petri, che nome metterebbero al protagonista, quello interpretato dal gigantesco Gian Maria Volontè, Ludovico Massa detto Lulù – appunto Massa: come massa proletaria, forza d’urto, classe se non egemone almeno orgogliosa, e orgogliosamente e presuntuosamente certa di diventare egemone un dì. Ed egemone lo fu, culturalmente almeno. Di canti e ballate, di cinema e di giornali, di dibattiti e di politica – l’operaio lo fu. Pasolini, a metà degli anni Sessanta, teorizzò: “Si dovrebbe pensare a dei poeti-operai (conio questa definizione su quella ormai nota di preti-operai). Soltanto vivendo compiutamente la vita di un operaio in una fabbrica è possibile entrarvi dentro fino in fondo, ma per viverla non passivamente o disperatamente (…) ma antiteticamente…”. E fu un fiorire di versi (seppur con risultati stilisticamente non memorabili – così che adesso quasi più nessuno ne ha memoria – che all’operaio si rivolgevano e dagli operai vergati. E furono pure libri, romanzi e saggi, e l’operaismo fu fervida non meno che complicata stagione politico-letteraria. A contaminarsi tra presse e verniciature tutti teoricamente si andava, a lodare la beltà della scocca da mano proletaria curata non c’era chi non annotava. Non più accade – e c’è il buon Landini della Fiom, con saggia maglia della salute sempre in vista, che transita per palchi televisivi osservato come se fosse Paola Borboni ancora sulle scene, ché c’è sempre il pensatore aggiornato e al corrente che l’operaio come problema presenta, e che come persona dai molti spaventi ignora – sempre qualcosa che sopra la sua testa passa, come il tornado che sradica e affoga i tonnellaggi delle gru e sprofonda nel fango i gruisti, così le bufere finanziarie, i mercati e le banche e quel girare vorticoso e inestricabile di soldi (e disse bene l’arcivescovo di Canterbury quando a un banchiere di gran caratura, invece delle clericali riverenze, pose la domanda che lo costrinse a indietreggiare: “Ma voi banchieri perché siete così tanto avidi?”), e che le sue gambe taglia. E resta a volte il surreale, il comunista dal minuscolo partito che assicura: “Fossi un operaio preferirei la Corea del nord alla Corea del sud” – e gli operai forse sanno cose che quelli che gli operai vorrebbero rappresentare ignorano, e di un operaio, uno solo, che voglia far valigia per prendere la strada da Termini Imerese a Pyongyang non si è ancora avuto notizia. “Non c’è la cultura della lotta al padrone – ha spiegato Giuse Alemanno, operaio nella Ome/ Mua e scrittore – né la sindacalizzazione veemente né la consapevolezza politica di classe. Gli operai rispecchiano la tendenza italiana, tra l’allontanamento della politica e un accordo silente con quello che passa il convento”.
Tutti una volta all’Operaio scrivevano, quasi laica divinità, chiedevano udienza, si dicevano pronti ad apprendere e ad abbracciare la causa. Nessuno ora più, nell’era della Grande Disperazione, pare più scrivere all’operaio. Così ora sono gli operai che prendono carta e penna, e mandano lettere disperate come messaggi in bottiglia di naufraghi nella scassatissima Italia – che chissà se qualcuno troverà, chissa se qualcuno mai leggerà, chissà (macché) se qualcuno mai risponderà. L’operaia Fiat iscritta alla Fiom: “Sono tornata a casa come se mi avessero infilato una lama di coltello nel cuore e sfinita mi sono buttata sul letto…”. Operaio di Pomigliano che chiede doni a Babbo Natale: “In primo luogo, l’aumento della richiesta di Panda, anche perché da gennaio saremo gli unici a produrre questa auto, e passare dalle attuali 740 vetture alle 920 al giorno, così facciamo il terzo turno”. Un operaio da sopra la torre di smistamento dell’Afo5 dell’Ilva: “L’incertezza del futuro e la paura di perdere tutto quello che ho creato con fatica e sacrifici. Questa situazione mi sta facendo diventare pazzo”. Un operaio a Marchionne: “Costringere dei padri di famiglia ad accettare condizioni di lavoro ulteriormente degradanti, e quel che peggio svilenti della loro dignità di lavoratori, non è una strategia aziendale: è una scappatoia”. Operaio al sito di Grillo: “Il mio stipendio si aggira intorno ai 1.100 euro al mese, lavoro a circa 50 km di distanza e ne spendo 300 circa di carburante, più 100 per il cibo… rimane 700 euro, pago un mutuo da 500 mensile… rimane 200, luce gas e acqua sono circa quella cifra… sono in pari… l’unico problema è che ho due figli di 12 e 6 anni da mantenere…”. Figlia di un operaio in sciopero: “Vi prego, non mollate”. Padre di un operaio: “Non dormo più la notte”. Figlio di un ex operaio Fiat: “Sono salito sull’auto costruita dagli operai della Mirafiori di Torino. Sono corso a casa dei miei genitori, l’ho visto per l’ennesima volta. Era curvo, la labirintite, causata da milioni di colpi di pressa, lo faceva barcollare, era debole a causa della cardiopatia, era mio padre, operaio al reparto presse per 35 anni, in cui aveva sacrificato tutto, tranne il tempo libero con la sua famiglia, quello era gratis. Odorava di dignità”.
E’ come se scrivessero a se stessi – in realtà: ecco, ci siamo ancora, siamo ancora vivi, siamo spaventati e incerti, ma vivi, vivi, cazzo!, pur malamente vivendo. Chissà se Francesco, prima di volare nel vento, avrà mai pensato di scrivere una lettera pure lui. Forse no, magari sì. Ma lo stesso un suo messaggio è giunto. Forse la situazione è davvero ben descritta in una mirabile vignetta di Altan, dove il vecchio Cipputi annuncia che è il momento pure per l’operaio di farsi “un bel lifting ai coglioni”. O tutto resterà consegnato a qualche vecchia foto in bianco e nero di Tano D’Amico – dove alcuni operai si abbracciavano. Ma lì sorridevano. Ancora. Abbiamo visto anche degli operai felici.
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