Il liberismo minoritario ma (molto) trasversale degli italiani

Carlo Stagnaro

L’Italia è il paese europeo coi tassi di crescita economica più bassi durante i periodi di espansione economica, e con le recessioni più severe nelle fasi avverse. Non vi è analisi che non colleghi questo fatto al mix tra poca concorrenza, Pubblica amministrazione inefficiente, elevata pressione fiscale. Tutti i report internazionali lo dicono e le evidenze lo confermano. Non è dunque sorprendente se, in un contesto politico bloccato, gli “innovatori” si definiscono proprio rispetto a questo punto: o negandolo (Beppe Grillo) oppure agitandolo contro i politici del passato colpevoli di averlo ignorato (Matteo Renzi).

    L’Italia è il paese europeo coi tassi di crescita economica più bassi durante i periodi di espansione economica, e con le recessioni più severe nelle fasi avverse. Non vi è analisi che non colleghi questo fatto al mix tra poca concorrenza, Pubblica amministrazione inefficiente, elevata pressione fiscale. Tutti i report internazionali lo dicono e le evidenze lo confermano. Non è dunque sorprendente se, in un contesto politico bloccato, gli “innovatori” si definiscono proprio rispetto a questo punto: o negandolo (Beppe Grillo) oppure agitandolo contro i politici del passato colpevoli di averlo ignorato (Matteo Renzi). E’ perciò stimolante il dubbio sollevato da Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di ieri: la fascinazione renziana per liberalizzazioni e privatizzazioni è, più che opzione ideologica, presa d’atto di una realtà negletta. L’argomento di Mucchetti è, però, più sottile e riguarda “l’intellettualità liberista” che ha “eletto Renzi a proprio campione” e ora soffre per la sua sconfitta. Per l’editorialista non si può “innestare una politica di destra all’altra ala dello schieramento politico”. I liberisti, essendo notoriamente senza cuore, raramente s’innamorano e se lo fanno è con un altro organo, cioè il cervello. L’attenzione per Renzi trova una giustificazione più terra-terra: il linguaggio del sindaco di Firenze coincide, in buona parte, col loro.

    Mucchetti non la vede così e per questo non ha né votato né tifato Renzi. Ma questo ha a che fare col pensiero dell’osservatore, non con la natura del fenomeno osservato. Del resto, l’idea stessa che il “liberismo” sia “di destra” è debole in generale, e specialmente in Italia. Perfino Pier Luigi Bersani, nel dibattito prima del ballottaggio, ha rivendicato le liberalizzazioni come politica di sinistra. D’altronde, la destra ha tradizionalmente agito (direbbe Karl Marx) da “comitato d’affari della borghesia”: non è stata “liberista”, tutta small government e deregulation, ma interventista, tutta sussidi e barriere. Era vero con la Democrazia cristiana, e lo è rimasto nel ventennio berlusconiano, a dispetto di una retorica apparentemente contraria. Alberto Alesina e Francesco Giavazzi non hanno del tutto torto a sostenere che il liberismo è di sinistra, nel senso di trasferire opportunità dai rentier protetti agli outsider meritevoli. Mucchetti, tuttavia, guarda oltre e si chiede: perché i liberali non sono riusciti a conquistare l’egemonia? E cosa fanno per risalire la china? Rispondere al primo quesito sarebbe lungo e laborioso, ma non è irrilevante né che i liberali della Prima Repubblica si siano infilati dentro i confini angusti di un partito – appunto – liberale, né che la cultura sia stata spesso cultura sussidiata, e dunque poco sensibile alla richiesta di meno spesa. Il secondo punto è altrettanto complesso ma una cosa è certa: Renzi ha dimostrato che il “liberismo” (come metodo, prima che come pensiero) è trasversale. Più di un terzo degli elettori di centrosinistra si riconosce nelle proposte di Pietro Ichino sul lavoro, non si lascia spaventare dalle privatizzazioni e capisce che lo stato, nella sua attuale organizzazione e dimensione, è un ostacolo alla creazione di ricchezza. Forse gli italiani sono liberisti e non lo sanno: aspettano solo qualcuno che glielo dica.