La reazione provinciale e corporativa di Passera sulla Fiat
Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, si è detto preoccupato per le sorti del Gruppo Fiat perché non vede “la determinazione a superare la crisi con gli investimenti e la volontà nel campo dell’auto”. E ha anche aggiunto che, per il futuro, per Fiat Auto sarebbe già un buon risultato essere una “sottomarca” di Chrysler. Ha spiegato poi che Fiat dovrebbe rispondere con concretezza alla perdita di peso dei suoi marchi in Europa, mentre non vede per ora la volontà e la determinazione a farlo.
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Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, si è detto preoccupato per le sorti del Gruppo Fiat perché non vede “la determinazione a superare la crisi con gli investimenti e la volontà nel campo dell’auto”. E ha anche aggiunto che, per il futuro, per Fiat Auto sarebbe già un buon risultato essere una “sottomarca” di Chrysler. Ha spiegato poi che Fiat dovrebbe rispondere con concretezza alla perdita di peso dei suoi marchi in Europa, mentre non vede per ora la volontà e la determinazione a farlo.
Una spiegazione per questa presa di posizione – di sapore molto provinciale e che in parte riecheggia le tesi della Cgil – sta probabilmente nel proposito, ancora in fieri, del ministro Passera di buttarsi in politica, presumibilmente nel centro-sinistra o nei dintorni. D’altra parte egli è stato sino a poco tempo fa amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. Prima della fusione fra Banca Intesa e il Sanpaolo, questi istituti avevano cercato di diventare azionisti di maggioranza del Gruppo Fiat mediante la conversione automatica in azioni di un prestito che gli avevano fatto in tempo di difficoltà. Ma non ci erano riusciti a causa di una spericolata operazione internazionale della famiglia Agnelli che ha dato luogo a un procedimento giudiziario. Ciò ha lasciato la bocca amara a questo mondo bancario.
Ma se Fiat Auto fosse una componente del gruppo Chrysler, ciò non sarebbe un fattore negativo né per l’impresa, né per l’Italia. Fiat, con la partecipazione a questo grande gruppo multinazionale, aggiunge al proprio mercato europeo super saturo e a quello buono nel sud America gli sbocchi di Chrysler negli Stati Uniti, nel Canada, nell’America centrale e in Asia. D’altra parte se uno o più degli stabilimenti del Lingotto in Italia potessero produrre vetture Chrysler, ciò consentirebbe di farli lavorare tutti in modo efficiente. Così anche l’industria italiana nel complesso ci guadagnerà, perché la nostra componentistica dell’auto, che lavora già molto sul mercato internazionale, avrà nuovi sbocchi.
L’idea che Fiat, invece, non debba essere strettamente integrata con Chrysler e debba fare la sua battaglia in Europa – ove c’è già un eccesso di capacità produttiva – riflette una veduta priva di basi economiche che si spiega con la nostalgia per il modello corporativo di intreccio pattizio fra grande impresa nazionale, sindacati e governo. Modello che Marchionne ha rotto con i contratti aziendali di produttività, ora bloccati dai ricorsi di Fiom-Cgil che di fatto rendono precario l’investimento in questi stabilimenti. Passera non riesce a slegarsi dalle corporazioni e non tocca i trasferimenti alle imprese che in base alla proposta dell’editorialista del Corriere della Sera, l’economista Francesco Giavazzi, andrebbero tagliati per finanziare la riduzione del cuneo fiscale che ostacola il rilancio industriale. Marchionne, con la sua “rivoluzione contrattuale”, invece, ha posto le basi per i nuovi contratti di produttività che la Confindustria guidata da Giorgio Squinzi manda avanti nonostante il “no” della Cgil di Susanna Camusso.
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