Sulla lista nera
“Sarei pronto a farmi esplodere anche domani se servisse, ma per il momento sono molto più utile qui in Libano”. Abu Yasser al Sibahi è un ragazzo di ventott’anni di Homs, in Siria, ed è un uomo di Jabhat al Nusra, il gruppo jihadista più violento e attivo in Siria contro il regime di Bashar el Assad. Letteralmente significa Fronte di protezione del popolo, di fatto è una costola di al Qaida: è la prima brigata ad aver utilizzato autobomba e attentati suicidi, rivendicati con video o comunicati, secondo i modi che già abbiamo conosciuto in Iraq e Afghanistan.
Tripoli (nord del Libano). “Sarei pronto a farmi esplodere anche domani se servisse, ma per il momento sono molto più utile qui in Libano”. Abu Yasser al Sibahi è un ragazzo di ventott’anni di Homs, in Siria, ed è un uomo di Jabhat al Nusra, il gruppo jihadista più violento e attivo in Siria contro il regime di Bashar el Assad. Letteralmente significa Fronte di protezione del popolo, di fatto è una costola di al Qaida: è la prima brigata ad aver utilizzato autobomba e attentati suicidi, rivendicati con video o comunicati, secondo i modi che già abbiamo conosciuto in Iraq e Afghanistan. Per questo gli Stati Uniti hanno intenzione di inserirlo nella lista nera delle organizzazioni terroristiche internazionali: la formalizzazione potrebbe avvenire all’incontro, la settimana prossima, dei Friends of Siria, che è stato anticipato ieri da un doppio incontro a sorpresa tra Hillary Clinton e il suo collega russo, Sergei Lavrov. L’America teme per i depositi di armi chimiche, e tra i suoi obiettivi c’è quello di annacquare il sostegno di Mosca a Damasco.
Sibahi è seduto sulla moquette azzurra di un negozio di Tripoli, al secondo piano di una tappezzeria. Pelle chiara, barba rossiccia, occhiali non ha l’aria di uno adatto alla battaglia. Infatti si occupa di logistica: in Libano recluta uomini e rifornisce il fronte di armi e apparati elettronici. In Siria, a Homs, suo fratello comanda una brigata di più di venti uomini. Jabhat al Nusra è presente in sette delle tredici province che compongono la Siria e si è avvalsa finora dell’aiuto di molti stranieri: libici, iracheni, maghrebini, afghani, ceceni, ma soprattutto sauditi concentrati nella zona di Homs. “Molti musulmani arrivano anche dai paesi occidentali – ci dice Sibahi – mi è capitato di aver a che fare con uomini venuti dall’Australia, dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra”. In realtà Jabhat al Nusra non accetta tutti: per essere ammessi bisogna superare una serie di prove fisiche (l’allenamento è più pesante rispetto a quello dell’Esercito libero di Siria) e avere un forte, anzi “fortissimo”, fervore religioso. I membri di Jabhat al Nusra prestano giuramento di fedeltà al capo e “non litigano su chi deve comandare”, come fanno le altre brigate.
I ragazzi intorno a Sibahi nei loro computer hanno foto di Bin Laden e del saudita Amir Khattab, una specie di “Che islamico”. Jabhat al Nusra dice di non rispondere ai proclami di al Zawahiri, ma i metodi e gli scopi sono gli stessi di al Qaida: attentati suicidi, decapitazioni, autobomba, indottrinamento religioso e creazione di un califfato islamico. “In linea di principio condividiamo molte cose con al Qaida – spiega – Però non abbiamo come obiettivo la distruzione delle chiese o l’attacco dei simboli sacri delle altre religioni”. I siriani sono abituati a vivere in una società multiconfessionale, ma in vista dell’instaurazione di un califfato islamico potrebbero recuperare la consuetudine arabo-ottomana di “chiedere pegno”. Nel nord di Aleppo molti delle brigate islamiche l’hanno già fatto: nella zona industriale hanno iniziato a taglieggiare gli imprenditori cristiani chiedendo dai 30 ai 200 mila dollari per non incendiare le loro fabbriche.
“Non capisco perché non mi è stata posta la domanda più ovvia – interrompe Sibahi – Perché non mi è stato chiesto: perché combattiamo?”. Forse perché la risposta è scontata: “L’esercito di Assad ha massacrato le nostre famiglie. Ha ucciso i nostri bambini, cosa dovevamo fare? Abbiamo il diritto di difenderci”. Quanto agli attentati suicidi, spiega: “Nell’islam c’è il calcolo dei costi e dei benefici. Se voglio eliminare un check-point e vado lì a sparare contro i soldati, loro risponderanno al fuoco e io morirò comunque. Se mi faccio esplodere, riesco ad avvicinarmi di più al bersaglio e ho la certezza di eliminare il maggior numero di persone”. Poco importa se si tratta di coetanei siriani che indossano la divisa del regime: secondo Jabhat al Nusra, “avrebbero potuto disertare”.
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