Un soldo per non restare soli

Paola Peduzzi

La storia di Bitcoin sembrava già finita nel luglio del 2011, dopo appena tre anni di vita. Doveva essere la soluzione all’enigma che da sempre opprime il mondo di Internet: creare una valuta digitale, conveniente, non tracciabile, libera da orpelli molto reali (e spesso anche molto utili) come i governi e le Banche centrali: negli anni Novanta i Cypherpunk, crittografi libertari, ne fecero una malattia della valuta digitale.

    Milano. La storia di Bitcoin sembrava già finita nel luglio del 2011, dopo appena tre anni di vita. Doveva essere la soluzione all’enigma che da sempre opprime il mondo di Internet: creare una valuta digitale, conveniente, non tracciabile, libera da orpelli molto reali (e spesso anche molto utili) come i governi e le Banche centrali: negli anni Novanta i Cypherpunk, crittografi libertari, ne fecero una malattia della valuta digitale. Nel 2008, anno dello choc economico in cui tutto ci sembrava da buttare – le banche, i banchieri e i prodotti finanziari – è arrivato Satoshi Nakamoto con il suo progetto per una nuova valuta digitale, Bitcoin appunto: su Nakamoto nessuno sapeva nulla, in un suo profilo on line aveva detto di vivere in Giappone ma l’e-mail della “fondazione” di Bitcoin proveniva da un service tedesco. Nakamoto voleva che la sua valuta fosse il frutto di tanti “minatori” che avrebbero risolto i problemi connessi all’iniziativa – tipo: chi mi dice che tu, spendaccione di Bitcoin, non sei uno che copiaeincolla pezzi di codice e usa e riusa questi soldi virtuali? – e avrebbero ricevuto in premio tanti “lingottini” di Bitcoin.

    La gestazione è durata qualche mese, la valuta ha fatto il suo ingresso in società il 25 aprile del 2010, mille bitcoin erano pari a 0,3 cent di dollaro, ha vissuto una straordinaria rivalutazione, tanto che quasi un anno dopo, in un articolo di Forbes sulla “cryptocurrency” il suo valore era passato a 1,16 dollari: il picco arriva nel giugno del 2011, con mille bitcoin che valevano addirittura 29,57 dollari. La bolla è lì lì per scoppiare, ovviamente: qualche giorno dopo il più grande ufficio di cambio di Bitcoin, Mt Gox, ammette che il suo database è stato hackerato e le informazioni degli utenti sono state rubate; un mese dopo il portafoglio virtuale di MyBitcoin diventa inaccessibile, sei giorni dopo ritorna con il 51 per cento dei suoi conti in Bitcoin (circa 250 mila dollari) persi nel nulla internettiano, come nemmeno i due, o forse nove, miliardi scomparsi a JP Morgan per “gravi errori” di una sua unit dedicata alla gestione del rischio. Nel novembre del 2011 il magazine Wired sancisce la fine del progetto con un lungo articolo dal titolo “L’ascesa e la caduta di Bitcoin” in cui racconta anche la caccia all’uomo fatta per rintracciare l’intracciabile Nakamoto (ci sono molte somiglianze con Julian Assange di Wikileaks, ma il finale è molto meno scenografico).

    Bitcoin però non è morta, si è inabissata nel mondo internettiano diventando prodotto di nicchia per allucinati dell’Internet, fino a che, nell’aprile di quest’anno, l’Fbi ha stabilito (in un documento che doveva essere a uso interno e invece è arrivato ai media: gli hacker sono tra noi) che Bitcoin è diventato il paradiso del riciclaggio di denaro sporco e di altre attività criminali. Sul sito Silk Road, per citarne uno che a New York ha fatto scandalo, si poteva comprare cocaina e pagare con i Bitcoin: la busta arrivava direttamente a casa.
    Come spesso accade con i prodotti internettiani, c’è anche il lato buono di questa diavoleria digitale: l’ultimo numero di Bloomberg Businessweek racconta come gli iraniani stiano cercando di usare Bitcoin per non sentirsi fuori dal mondo, visto che il rial è diventato più o meno carta straccia e i dollari, per via delle sanzioni, non arrivano più nella Repubblica islamica.

    Nello store on line coinDL.com, si possono scaricare le canzoni di Mohammed Rafigh spendendo 0,039 Bitcoin l’una (45 cent): si rischia di violare le sanzioni imposte dall’America, ma lo stesso Rafigh dice che non gli importa: “Amo l’Iran, se Bitcoin fa del bene a me, lo farà anche agli iraniani”. Un Bitcoin, a Teheran, vale 332,910 rial, e secondo localbitcoins.com, un agente di cambio on line di Bitcoin, il mercato iraniano si sta allargando. Così come si sta allargando il numero di negozi/servizi che accettano questa valuta digitale: non c’è più soltanto una bakery di San Franciso o uno studio dentistico di Helsinki, dal 16 novembre scorso anche Wordpress, l’enorme piattaforma per creare e gestire blog, accetta Bitcoin tra i metodi di pagamento.

    E’ il segno della riscossa? Chissà. Nel suo momento di massima visibilità, a Bitcoin non è andata benissimo: “Protagonista” di una puntata della serie tv “The good wife” che raccontava la caccia al fondatore (e lo si trovava dopo due o tre colpi di scena complicatissimi), Bitcoin perdeva il suo tratto pionieristico, anarchico, libertario. Presentata davanti a un giudice, Bitcoin era soltanto una “invenzione illegale”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi