La tv dei Fratelli musulmani
Da voce della rivolta, ora al Jazeera è diventata il nemico di piazza Tahrir
Il Cairo, dal nostro inviato. “Una volta eravamo ammirati e rispettati, quando trasmettevamo in diretta da piazza Tahrir da in mezzo alle manifestazioni la gente stava con noi, ci aiutava, ci faceva ala nei momenti di festa e ci faceva da scudo nei momenti di pericolo, ci ha protetto fisicamente in molti casi. Eravamo riconosciuti da tutti, camminavamo con orgoglio: ‘Siamo quelli di al Jazeera’. Adesso non è più così. Siamo sempre riconsociuti da tutti, ma in negativo. Ci seguono, ci minacciano, ci aggrediscono. Ci impediscono di stare nelle manifestazioni, ci impediscono di lavorare. Siamo a rischio”.
Il Cairo, dal nostro inviato. “Una volta eravamo ammirati e rispettati, quando trasmettevamo in diretta da piazza Tahrir da in mezzo alle manifestazioni la gente stava con noi, ci aiutava, ci faceva ala nei momenti di festa e ci faceva da scudo nei momenti di pericolo, ci ha protetto fisicamente in molti casi. Eravamo riconosciuti da tutti, camminavamo con orgoglio: ‘Siamo quelli di al Jazeera’. Adesso non è più così. Siamo sempre riconsociuti da tutti, ma in negativo. Ci seguono, ci minacciano, ci aggrediscono. Ci impediscono di stare nelle manifestazioni, ci impediscono di lavorare. Siamo a rischio”. Hayat Alyamani è newmedia producer del canale tv di al Jazeera Mubashir Misr, è minuta, determinata, mentre parla al Foglio la figlia di sei anni gira per la redazione con la faccia dipinta a pastelli. Alyamani era diventata un simbolo della piazza libertaria grazie a un video amatoriale del settembre 2011, quando fu sbattuta a terra dagli agenti della sicurezza durante un raid dentro gli uffici della tv. La scena di lei che resisteva alla squadra in borghese mandata a sequestrare le telecamere e i computer riassumeva il guado politico in cui l’Egitto era bloccato: da una parte il governo dei militari che aveva rimpiazzato Mubarak soltanto nel nome; dall’altra la piazza ancora battagliera e ancora sostenuta da quei media che avevano incitato al cambiamento fin dall’inizio. Ora la situazione s’è capovolta: al Jazeera Egitto non è più considerato un canale di lotta, ma di governo, la voce amplificata non più della piazza che protesta ma dei Fratelli musulmani e del presidente Mohammed Morsi, che ieri ha ordinato ai militari di “mantenere l’ordine fino all’annuncio dei risultati del referendum sulla Costituzione” e per questi giorni ha concesso loro di nuovo il potere di arrestare civili, come ai tempi del regime di Mubarak.
L’ufficio di al Jazeera Egitto è al terzo piano di un palazzo sul Nilo, hanno dovuto traslocare qui dopo che lo studio che affacciava su piazza Tahrir è stato attaccato e bruciato dai manifestanti il 21 novembre (“quattro bottiglie molotov, sono partite dalla piazza e sono finite contro la vetrata di al Jazeera”, dice al Foglio la free lance italiana Laura Cappon, che quel giorno era a Tahrir). La rete tv è controllata e finanziata dal Qatar, che spinge sulle ribellioni arabe perché vede la caduta dei dittatori nella regione come l’occasione giusta per favorire l’ascesa di governi islamici. La copertura di al Jazeera è però selettiva: la rete dedica tempo e risorse a Libia, Egitto e Siria e non segue quello che succede nel vicino Bahrein, dove la casa regnante soffoca le proteste in piazza. E’ come se al Jazeera avesse un angolo cieco, che ora però, da quando sono arrivati al potere i Fratelli musulmani, si è allargato anche all’Egitto.
Il Cairo è in collegamento con la direzione centrale? “Sì – dice Alyamani – ci sentiamo ogni giorno con la casa madre in Qatar, il nostro direttore oggi è a Doha”. Perché siete presi di mira dai manifestanti? “Perché durante la campagna elettorale, prima di quest’estate, abbiamo appoggiato il candidato Morsi. E ora siamo accusati di stare dalla loro parte: dicono che inquadriamo piazza Tahrir con lo zoom per mostrare che c’è poca gente, che non seguiamo gli scontri al palazzo di Morsi – quando non ci siamo, è perché la gente ci ha cacciato! – che diamo notizie sbagliate”.
Il rogo che non c’era
La disinformatia gioca un ruolo centrale anche in questa ondata di proteste egiziane. Non si tratta soltanto dei casi infiniti di micro-censure e di versioni addomesticate offerte in trasmissione da tv rivali, ma di un duello tra versioni dei fatti differenti. Al Jazeera Egitto ha trasmesso le immagini della sede del partito Libertà e Giustizia, paravento della Fratellanza, dato alle fiamme nel quartiere periferico di Moqattam, ma il giorno dopo i giornalisti occidentali non hanno trovato tracce del rogo. In redazione un assistente di al Jazeera mostra un video di tre minuti girato in strada mercoledì scorso, durante gli scontri violenti davanti a al Ittihadiya, il palazzo che è stato di Mubarak e ora è di Morsi. Manifestanti del fronte laico in mezzo alla sassaiola hanno in mano pistole e sparano ad altezza uomo contro le squadre dei Fratelli musulmani. Dall’altro lato dicono che il gruppo islamico ha celebrato con i funerali di massa la morte di sei “martiri” uccisi in quegli scontri, ma i Fratelli si sono appropriati di morti che non erano loro, su almeno due c’è la certezza, cosa confermata al Foglio da numerose fonti terze.
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