L'eroina negletta nell'ufficio della Cia

Paola Peduzzi

Maya è quella che ha preso Bin Laden. La spia che ha messo insieme pezzetti di intelligence raccolti sul campo, negli interrogatori, nelle intercettazioni ed è arrivata fino al compound di Abbottabad, Pakistan. Maya è la protagonista rossa e algida del film di Kathryn Bigelow, “Zero Dark Thirty” che uscirà in America il 19 dicembre e in Italia il 10 gennaio prossimo e racconta come è stato catturato il capo di al Qaida.

    Milano. Maya è quella che ha preso Bin Laden. La spia che ha messo insieme pezzetti di intelligence raccolti sul campo, negli interrogatori, nelle intercettazioni ed è arrivata fino al compound di Abbottabad, Pakistan. Maya è la protagonista rossa e algida del film di Kathryn Bigelow, “Zero Dark Thirty” che uscirà in America il 19 dicembre e in Italia il 10 gennaio prossimo e racconta come è stato catturato il capo di al Qaida (noi il film purtroppo non l’abbiamo visto, ma ci siamo fatti raccontare alcuni dettagli da una persona informata sui fatti). Maya è interpretata da Jessica Chastain e l’unico obiettivo che ha è trovare Osama bin Laden. Non ha una vita oltre alla Cia, non la vuole, o forse sa di non poterla avere: quando le viene chiesto, domanda secca, se non ha ripensamenti, forse una donna a un certo punto non ne può più di essere sola, Maya non risponde. Certe missioni sono totalizzanti, come abbiamo imparato guardando la serie tv sulle spie, “Homeland”, che ha come protagonista un’agente, Carrie Mathison, ossessionata fino alla follia – letteralmente, gira molto litio dalle sue parti – dall’aver “missed something” nella grande caccia ad Abu Nazir, il Bin Laden della fiction. E anzi, ora che nella seconda stagione c’è parecchio romanticismo, non soltanto controterrorismo estremo, molti sbraitano: ehi, ridateci indietro la nostra Carrie, quella che se va a letto con qualcuno è per trovare informazioni su Abu Nazir, quella che non si sognerebbe mai di innamorarsi in missione.

    Il cuore delle spie non è un’invenzione moderna ma, ora che le donne sono protagoniste del mondo dell’intelligence e non soltanto comparse sexy e doppiogiochiste, il cuore è ancora più rilevante. Eli Lake, esperto di intelligence di Newsweek con una gran mano per gli scoop, ha scritto a settembre un articolo che partiva proprio da Maya – che è ovviamente il nome della fiction, la “vera” Maya non ha volto e non ha nome: in un resoconto non autorizzato di un Navy Seal, il suo nome è “Jen” – per raccontare il mondo delle “superstar female agent” della Cia. Maya-Jen è una “targeter”, analizza frammenti di intelligence per localizzare terroristi, contrabbandieri, trafficanti di droga e di armi. Molte “targeter” sono donne: era donna anche l’agente che ha stanato un altro capo di al Qaida, in un covo in Pakistan, dopo aver messo insieme dati provenienti da ricognizioni aeree e da fonti locali. Si chiamava Jennifer Matthews, e il suo nome si può dire perché è morta, in missione, alla fine di dicembre, nel 2009: era a capo del team della Cia che lavorava nella base di Khost, Afghanistan. Matthews aveva trovato un giordano che le aveva dato informazioni importanti, lo aveva fatto passare dalla sua parte, lo aveva invitato alla base e aveva fatto preparare una torta al cioccolato: quando il giordano è arrivato, si è fatto esplodere, sette agenti della Cia morti. Matthews una famiglia ce l’aveva, a casa, in Virginia: ci parlava via Skype, i bambini le chiedevano: “Mamma ci fai vedere la pistola?”.

    Il cuore delle spie può essere ballerino: nel suo ultimo libro, Ian McEwan racconta la storia d’amore tra una spia inglese e uno scrittore reclutato, a sua insaputa, dall’MI5, i non detto, le ingenuità, il grande bluff delle doppie, triple vite. Ma anche questa è fiction. La vita delle spie a volte è eroica e banale al tempo stesso: ieri il Washington Post ha raccontato la storia della “vera” Maya. Dedicata alla causa, questa donna tra i 30 e i 40 anni, per anni ha lavorato dalla sede in Pakistan (che è base per modo di dire: si è sempre in giro) e il suo ruolo è definito “cruciale” anche dai suoi detrattori. Che sono tanti, perché la Cia non è solo la centrale del fascino globale dell’intelligence, è soprattutto un ufficio con una burocrazia elefantiaca, in cui i colleghi litigano, s’invidiano, si parlano alle spalle. La vera Maya non ha ottenuto un aumento di stipendio di 16 mila dollari l’anno, e se l’è segnata e quando ha preso un bonus per l’operazione Bin Laden si è sentita parzialmente ricompensata. Anzi, quando è arrivato il premio interno, vedendo la lista dei premiati, la vera Maya ha risposto all’e-mail con un “reply all” dicendo: voi mi avete ostacolata, mi avete lasciata sola, mi avete combattuta, soltanto io merito il premio, voi no. Abbastanza per farsi odiare ancora di più, abbastanza per restare sola, eroina negletta con l’aria da stronza e il cuore freddo. Con il talento per accorgersi che seguendo i corrieri si sarebbe arrivati a Bin Laden e che il nome ripetuto in vari interrogatori – interrogatori tremendi, non roba da femmine – era quello giusto, quello decisivo, quello da batticuore.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi