Alitalia 2013, ritorno allo stato?
Dopo quattro anni si torna a elezioni, con il cerino di Alitalia in mano. E’ un paradosso che – con oltre 3 miliardi persi a carico dei contribuenti, 5.000 lavoratori in mobilità, la prima compagnia aerea italiana, confinata nel ruolo di operatore regionale e circondata da giganti in ascesa come Turkish Airlines – a guardare il cielo si scorga come soluzione la nazionalizzazione. Lo dicono gli analisti e lo sussurrano fonti governative: la Cassa depositi e prestiti (Cdp), tramite il Fondo strategico, è il salvatore adatto grazie alla garanzia fornita dal ministero dell’Economia che la controlla.
Dopo quattro anni si torna a elezioni, con il cerino di Alitalia in mano. E’ un paradosso che – con oltre 3 miliardi persi a carico dei contribuenti, 5.000 lavoratori in mobilità, la prima compagnia aerea italiana, confinata nel ruolo di operatore regionale e circondata da giganti in ascesa come Turkish Airlines – a guardare il cielo si scorga come soluzione la nazionalizzazione. Lo dicono gli analisti e lo sussurrano fonti governative: la Cassa depositi e prestiti (Cdp), tramite il Fondo strategico, è il salvatore adatto grazie alla garanzia fornita dal ministero dell’Economia che la controlla. Un percorso inverso rispetto a quello della privatizzazione gestita da Corrado Passera per conto dell’indebitata (con Air One) Intesa Sanpaolo, tema chiave della campagna elettorale del 2008 condotta da Silvio Berlusconi. Intervistato ieri dal Messaggero, l’amministratore delegato, Andrea Ragnetti, ha ammesso che i primi sei mesi del 2013 saranno “duri”. Il 12 gennaio i soci della cordata tricolore potranno liberarsi di un investimento che si è rivelato perdente scambiandosi quote tra loro (da ottobre potranno venderle a chiunque). In particolare la disgraziata famiglia Riva, quella dell’Ilva, e la famiglia Benetton (attraverso Atlantia). Nel frattempo è rimasto solo un quarto della liquidità che i “patrioti” avevano immesso nella nuova Alitalia Cai per tenerla italiana e non venderla ai francesi di Air France, soci di maggioranza con il 25 per cento che difficilmente oggi riuscirebbero a rilevarla (hanno appena annunciato 5.000 esuberi). L’ipotetico acquisto da parte di una compagnia extra europea sarebbe più complicato: per avere la maggioranza di un vettore occorre l’autorizzazione della Commissione Ue. Il Cda odierno si preannuncia movimentato, come quello scorso: ci sono oltre 800 milioni di debiti da gestire e l’exit strategy da concordare. “Nel 2013 sarà necessario un aumento di capitale e senza altre risorse è molto probabile che entro l’anno o poco più in là si ponga l’esigenza di un intervento della Cdp”, dice al Foglio Ugo Arrigo, docente di Scienza delle finanze all’Università Bicocca.
Sotto la superficie di un’azienda che vedendo traballare il monopolio sulla profittevole rotta Linate-Fiumicino cerca di recuperare quote di mercato con pervasive strategie di marketing (l’ultima una tombola natalizia in volo con in palio una Fiat 500), c’è il malessere dei dipendenti. Ragnetti, ex capo marketing di Philips, guarda ai risultati sui social network, ai progressi del sito di e-commerce, nella speranza di fidelizzare i passeggeri (visto che la compagnia nel ranking globale è 83esima per soddisfazione della clientela). Chi ci lavora denuncia informali pressioni sui piloti e incentivi agli stessi per “controllare” il carburante imbarcato sugli aerei al fine di risparmiare su una sempre più consistente voce di costo (pratica da vettore low cost usata anche da Ryanair). Allo stato dunque l’inversione di rotta?
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