La Costituzione nel paese del melodramma
Se il comico è “avvertimento del contrario”, se nasce dallo stridore percepito tra la forma e la sostanza delle cose, allora sì, la Costituzione della Repubblica italiana è un grande tema comico. Non sarà un caso se “La Costituzione di carta” del giornalista-giurista Mario D’Antonio aveva in copertina il “Popolano in maschera” del pittore verista Vincenzo Irolli: un Arlecchino che tiene in mano un libretto e lo scruta con espressione tra smagata e perplessa.
Se il comico è “avvertimento del contrario”, se nasce dallo stridore percepito tra la forma e la sostanza delle cose, allora sì, la Costituzione della Repubblica italiana è un grande tema comico. Non sarà un caso se “La Costituzione di carta” del giornalista-giurista Mario D’Antonio aveva in copertina il “Popolano in maschera” del pittore verista Vincenzo Irolli: un Arlecchino che tiene in mano un libretto e lo scruta con espressione tra smagata e perplessa. Esiste la Costituzione, si chiedeva D’Antonio nel trentennale del 1977? Così ampio gli appariva il fossato tra quella Carta omaggiata a parole e il concreto funzionamento dello stato, da doverne concludere che no, la nostra è una “Costituzione inesistente”, né più né meno del cavaliere di Calvino.
Sullo scollamento tra i principi enunciati nella Carta e il mondo extra-cartaceo in cui sono accampati da decenni i poteri italiani, su questo quotidiano avvertimento del contrario, si potrebbe dunque allestire un magnifico spettacolo pirandelliano. Il guaio è che Roberto Benigni non è o non è più un attore comico, e neppure umoristico: è l’ultimo rampollo del “paese del melodramma”, per usare la vecchia formula di Barilli. Qui la dissonanza comica tra la vita e il diritto si smorza e tace, avvolta nel manto della bellezza che tutto sovrasta e tutto assolve. “La più bella del mondo” si chiama lo show di Benigni sui primi dodici articoli della Costituzione che Rai Uno manderà in onda il 17 dicembre, e vien da pensare a quella scena di “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi in cui l’avvocato difensore incanta il tribunale con parole alate, e l’uditorio è a bocca aperta mentre partono le note di una musica che ricorda il preludio della “Traviata”, e buonanotte al diritto, alle forme e alla verità. La bellezza “vincit omnia”.
Com’è bella la nostra Costituzione, quasi quasi ci farei all’amore; anzi, darei un bacio in bocca a tutti i Padri costituenti, uno per uno, Andreotti compreso. Sono queste, a un dipresso, le parole che ci aspettiamo di sentire nell’elogio di una Carta che è bella come la più bella delle donne. Niente di troppo nuovo, in verità: “Una bella donna allontana e dissipa le nuvole che la circondano, e la sua bellezza brilla in tutto il suo splendore. Sopra si legge: COSTITUZIONE”, recitano le cronache della Festa della federazione, 14 luglio 1790, primo anniversario della Rivoluzione francese. Solo che in quel paese la legge suprema è tenuta di solito un po’ più in conto; qui da noi, diceva D’Antonio, è uno chiffon de papier “racchiuso in un moderno tabernacolo frigorifero”. Chissà se Benigni, davanti a tanta sfolgorante bellezza giuridica, avrà l’istinto di smutandarla come la Carrà. Di certo non la brandirà come un Vangelo laico o come un libretto rosso di Mao, no: ne farà lo spartito parodistico di un’opera verdiana, riadattata all’epoca nostra, piena di patriottismo risorgimentale e resistenziale, di orgoglio scolastico e deamicisiano. Perché la Costituzione, va delirando Benigni, è bella come la “Commedia” di Dante o come la cupola del Brunelleschi; osservazione che, per inciso, porta a concludere una volta di più, dopo la campagna elettorale di Matteo Renzi e il suo “Stil novo”, che dalla Toscana e dal suo ruffianissimo marketing della bellezza spirano ormai i venti del nazional-estetismo come via indolore allo spirito di cittadinanza. E ci toccherà essere tutti d’accordo, perché tifare contro Benigni è come tifare contro la Nazionale, è ingeneroso, tradisce un animo meschino, perfino quando commentando Mameli tesse le lodi degli eserciti schierati, belli anch’essi come una bella donna.
Non ci resta che piangere, allora, o ridere rinfrancati, già che la celebrazione di lunedì dovrebbe culminare con l’articolo 12, il solo che sia stato applicato con la più scrupolosa dedizione civica dalle nostre classi governanti insufflate di spirito risorgimentale: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”.
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