La caduta dei generali

Giulio Meotti

Dwight Eisenhower e Charles De Gaulle hanno fatto la storia di Stati Uniti e Francia, ma sono anche rimasti delle celebri eccezioni di militari alla guida delle democrazie. In Israele le mostrine da sempre impreziosiscono le spalle dei leader politici. Gli ultimi sei su otto primi ministri dello stato ebraico dal 1974 a oggi hanno avuto speciali credenziali militari. Ma adesso il paese sembra pronto a voltare pagina, in nome di una “normalizzazione”, che altri chiamano “èra post eroica d’Israele”.

    Dwight Eisenhower e Charles De Gaulle hanno fatto la storia di Stati Uniti e Francia, ma sono anche rimasti delle celebri eccezioni di militari alla guida delle democrazie. In Israele le mostrine da sempre impreziosiscono le spalle dei leader politici. Gli ultimi sei su otto primi ministri dello stato ebraico dal 1974 a oggi hanno avuto speciali credenziali militari. Ma adesso il paese sembra pronto a voltare pagina, in nome di una “normalizzazione”, che altri chiamano “èra post eroica d’Israele”.
    La fine dei generali israeliani è evidente dalla lista dei prossimi membri della Knesset, il Parlamento di Gerusalemme. I giornalisti e le celebrità della tv stanno prendendo il posto dei militari. Non c’è nessun nome di prestigio proveniente da Tsahal. Un cambiamento avvertito sin dall’uscita di scena del “cekista”, come qualcuno ha ribattezzato Ehud Barak, ex prodigio militare, ex commando, ex premier e da ieri anche ex ministro della Difesa. Con l’addio (per ora) di “Napoleone” Barak è in corso un più generale cambio generazionale che va a incidere sul tessuto politico, etico e di sicurezza dello stato ebraico. E’ la fine del “militarismo civile e democratico” israeliano?

    Il commento più eloquente su Ehud Barak viene da Eitan Haber, opinionista di punta del quotidiano Yedioth Ahronoth: “Rabin aveva grande rispetto per lui, Shamir lo adorava, Bibi e la sua famiglia lo ammiravano. Nell’unità d’élite della Sayeret Matkal, Barak era un comandante superiore. Lui sa tutto di tutto: del cancro al pancreas più degli oncologi, di Ciaikovskij più di un maestro d’orchestra, della storia ebraica più di un professore. Solo una mente brillante come la sua avrebbe potuto mettere a punto il piano per assassinare Saddam Hussein. Forse alla politica non mancherà Barak, ma alla sicurezza sì”. Negli ultimi tre anni Barak, che come disse una volta Henry Kissinger “è l’uomo più intelligente che sia dato di incontrare”, ha guidato “Piombo Fuso” a Gaza, ha diretto uno strike segreto contro l’atomica siriana, ha orchestrato operazioni clandestine contro le centrali iraniane e ha preparato lo strike preventivo contro Teheran, infine, meno di un mese fa ha diretto “Colonna di fumo” contro Hamas. Chi sarà in grado di prendere le sue redini?
    Il fatto che Israele abbia sempre avuto una guida mista politica e militare ha avuto effetti positivi, come il fatto che un colpo di stato dell’esercito fosse impensabile, a differenza della vicina Turchia. Ma soprattutto il fatto che per un paese in guerra da settant’anni è certamente meglio essere governato da chi conosce davvero la sicurezza. L’ex capo di stato maggiore, archeologo ed eroe di guerra Yigael Yadin era solito dire che “in Israele un civile è un soldato con undici mesi di congedo”. Ovvero, la linea rossa fra militari e civili è sempre stata molto sottile.

    Nei cinquant’anni di vita dello stato ebraico ci sono stati 121 generali di brigata che sono divenuti ministri. E di oltre tredici capi di stato maggiore, almeno dieci sono entrati in politica. Nulla a che vedere con il militarismo all’europea di stampo fascista e sovietico. Gli eroi militari israeliani, basti pensare a Barak, sono tarchiati e con la pancia. Il loro inglese ha sempre un accento israeliano, con la erre gutturale, hanno avuto come rampa di lancio il kibbutz e genitori polacchi pionieri e intellettuali.
    Con Ariel Sharon in coma, Barak era l’ultimo rappresentante di questa stirpe destinata a interrompersi, almeno per ora: quella dei combattenti scesi in politica alla guida dello stato ebraico. Poche le eccezioni. Una sicura, Golda Meir. Due inevitabili per ragioni anagrafiche: il padre della patria David Ben-Gurion e il suo successore Moshe Sharett, entrambi membri dell’Agenzia ebraica. Ma tutti gli altri hanno, in un contesto o nell’altro, imbracciato le armi. A cominciare da Levi Eshkol, membro dell’Haganah, l’organizzazione paramilitare ebraica che operò fino al 1948 e trasformatasi, alla proclamazione dell’indipendenza, in quello che oggi è Tsahal. L’intreccio esercito-politica non riguarda soltanto i primi ministri, ma molte altre grandi figure politiche. Come Ezer Weizman, numero uno dell’aviazione israeliana e, durante la Guerra dei sei giorni, capo delle operazioni dello stato maggiore e poi presidente. Il ministero della Difesa è sempre andato ai generali – come Moshe Dayan, Sharon, Shaul Mofaz, Yitzhak Mordechai – o a individui con un background nella sicurezza – come Shimon Peres, Moshe Arens, Benjamin Ben-Eliezer e Yitzhak Shamir. E anche laddove i leader politici non vengono dai ranghi dell’esercito, come Abba Eban, Menachem Begin e Peres, sono stati al centro delle decisioni strategiche anche prima di entrare in politica (Peres ha dato a Israele la bomba atomica). La privatizzazione dell’economia israeliana ha consentito a molti ex ufficiali di fare affari nel campo dell’high tech e delle grandi corporation (come nel caso di Barak). Ma per gran parte di loro, la politica è sempre stata un esito naturale.

    Il massimo onore per un politico israeliano è essere chiamato “Mar Bitachon”, Mister Sicurezza, ministro della Difesa. Non è solo il fatto che la fama conseguita sul campo di battaglia ha permesso a molti di loro l’ingresso in posizioni di leadership. E’ che Israele è da sempre sia Sparta sia Atene. Il leader di Kadima, Shaul Mofaz, ex capo dell’esercito, non entrerà in Parlamento. Il secondo maggior partito, Yisrael Beiteinu, è guidato da un uomo, Avigdor Lieberman, completamente estraneo alla vita militare. Lo stesso premier, Benjamin Netanyahu, pur con un passato da commando agli ordini di Barak, è un civile inviso ai militari.
    Il caso di Mofaz é particolarmente emblematico della crisi dei militari. Di origini iraniane, ex capo di stato maggiore, ex ministro della Difesa, ex Likud, il generale Mofaz è noto come “Mr. Security” ed è diventato famoso in occidente come quello del massacro, che massacro si rivelò non essere, di Jenin. La sua carriera militare decolla, letteralmente, nel 1976 quand’è uno dei protagonisti del blitz a Entebbe (in cui perse la vita il fratello di Netanyahu, Yoni). Fu sempre lui a volere le “esecuzioni mirate” dei terroristi. La durezza di Mofaz è tale che molti lo chiamano “Ghever-Ghever”: il duro per antonomasia. Eppure, sotto la sua guida Kadima, il partito che fino a ieri era il primo in Parlamento, domani non riuscirà neppure a portare a casa un deputato. Ha lasciato Kadima anche il generale Dan Halutz, capo di stato maggiore all’epoca della seconda guerra in Libano. 
    Per molto tempo l’anima civile del Partito laburista (Peres, Yossi Beilin, Shlomo Ben-Ami e Avraham Burg) è stata bilanciata da quella militare (Rabin, Barak e Ben-Eliezer). Oggi non è più così e non vi sono figure militari di rilievo nella lista politica. Il Partito laburista è guidato da una giornalista, Shelly Yachimovich, che porterà con sé i leader delle proteste di piazza, come Stav Shaffir e Itzik Shmuli, giovani trendy della protesta borghese.

    Gli attivisti sociali hanno scalzato dai primi posti del partito anche un veterano militare come Benjamin Ben-Eliezer, noto con il soprannome arabo “Fuad”, il più falco dei laburisti, inquisito in Spagna per “crimini di guerra”, le cui origini irachene e la conoscenza dell’arabo gli valsero un compito nel Mossad nei primi anni Settanta, quando in qualità di agente dei servizi doveva fomentare la lotta dei curdi di Mustafa Barzani contro il regime di Bagdad. Così, l’uomo che ha partecipato alla pianificazione dell’invasione del Libano nell’estate del 1982 e che non perde occasione di ricordare a tutti di “essere giunto a piedi nella terra di Israele all’età di tredici anni”, è stato battuto da chi ha eretto tende sul boulevard Rothschild di Tel Aviv per protestare contro l’aumento dei prezzi delle case.
    Già oggi, nell’attuale Knesset in dissoluzione, il numero di giornalisti compete con quello dei militari, e nella prossima i primi surclasseranno i secondi. La leader laburista Yachimovich saluta questa trasformazione come un evento positivo: “Guardate quello che sta accadendo, due generali, Barak e Mofaz, non entreranno in Parlamento, mentre io, che sono stata soltanto una semplice tenente dell’aviazione, ci porto venti deputati”. Non la pensa così Ari Shavit, giornalista di Haaretz che dà voce all’opinione più mainstream nel celebre quotidiano israeliano: “L’uscita di scena di Barak è più di un simbolo. Nella politica virtuale e infantile del 2012 non c’è più spazio per gli uomini d’azione. Questa estate ha posto fine alla vecchia élite militare”.
    Anche la destra ha perso i suoi generali d’armata. Assassinato dai palestinesi Rehavam Ze’evi, il “Gandhi” ammirato anche a sinistra per la sua audacia e onestà, restava il generale Effi Eitam, che durante l’ultima guerra del Libano dagli scranni del Parlamento gridava “sono orgoglioso di mio e attraverso la Knesset continuerò a sostenere la guerra”. Ex membro di kibbutz (azienda agricola collettiva), padre di otto figli, il generale dopo una parentesi alla Knesset è tornato a fare quello che sa meglio fare: il colono del Golan. 

    L’altro astro nascente della politica israeliana, Yair Lapid, è un giornalista che non parla mai di sicurezza ma quasi sempre delle questioni sociali e della middle class. Altri celebri giornalisti, come Nitzan Horowitz, Uri Orbach e Daniel Ben-Simon, entreranno in Parlamento.
    Persino la “speranza” centrista di battere Netanyahu, il navigato Ehud Olmert, era solo un reporter dell’esercito con i figli che hanno saltato la leva militare, mentre Tzipi Livni, anche lei lanciata in Parlamento con una nuova formazione, ha trascorso soltanto quattro anni come ufficiale junior nell’intelligence del Mossad (nella sua lista l’unico “militare” è Amir Peretz, il peggior ministro della Difesa della recente storia israeliana).
    Che la storica élite militare sia entrata in crisi lo si evince anche dalla fine dei candidati provenienti dai kibbutz. Ma anche il grande blocco di potere economico legato all’esercito è stato in parte eroso dalla crisi. La caduta dei generali segna anche un ridimensionamento dell’establishment militare. Dal 2008 a oggi, il budget militare d’Israele ha perso un miliardo e duecento milioni di dollari, anche se la difesa resta un pilastro dell’economia israeliana, con aziende come Achidatex (giubbetti antiproiettili), l’Aeronautics Defense Systems, Defensoft (programmi informatici militari), Israel Military Industries (munizioni e tanks) e Soltam Systems (artiglieria a distanza). I generali e alti ufficiali da anni cercano di mantenere intatto il proprio potere economico. Del budget militare, infatti, ben il 41 per cento va ai salari, il 13 alle pensioni, l’11 alla riabilitazione, e soltanto il 30 all’acquisizione di nuovi equipaggiamenti. Israele, nonostante sia un paese molto piccolo, ha il dodicesimo budget militare più vasto al mondo, la cui giustificazione resta per legge ignota al pubblico. 

    Oggi il grande blocco di potere legato all’industria militare, intorno alla quale ruotano tante commesse e ingaggi, è soppiantato dalle donazioni straniere, a cui accedono i candidati alla Knesset. Netanyahu ha raccolto il 96 per cento dei propri fondi elettorali all’estero. Un generale ed ex capo di stato maggiore come Moshe Ya’alon, probabile prossimo ministro della Difesa dopo la partenza di Barak, ha raccolto il cento per cento di denaro oltre mare. Lo stesso Halutz, altro generale, ha raccolto il 93 per cento all’estero. L’ex capo di stato maggiore Mofaz ha totalizzato il 67 per cento. 
    Sul Middle East Journal, Oren Barak e Eyal Tsur hanno studiato questa trasformazione d’Israele, annotando uno a uno gli alti ufficiali dell’esercito passati alla politica. Nel 2006, quindici ex generali e sei capi dei servizi di intelligence sono stati eletti alla Knesset. “E’ nel nostro hard disk”, dice Avigdor Kahalani, ex ministro ed eroe di guerra. Quando, dopo la Guerra dei sei giorni, lo scrittore Shabtai Teveth scrisse un libro sul valore dei carristi, sulla torretta il protagonista era proprio Kahalani, il comandante yemenita che sfidò la morte (una morte orribile per ustioni dentro il suo carro armato; infatti rimase in fin di vita per mesi e mesi all’ospedale) pur di condurre i suoi uomini valorosamente contro il nemico siriano, e di tentare di estrarli dalla mischia uno per uno.
    “L’opinione pubblica percepisce i militari come coloro che sono in contatto con il cuore dell’esistenza di questo paese”, dice Shevach Weiss, scienziato della politica ed ex speaker della Knesset. Eppure qualcosa si è rotto. Su Haaretz è apparsa una column impensabile fino ad alcuni anni fa: “La caduta dei generali”.
    Il declino dei politici con le mostrine si spiega anche con il declino demografico di Tsahal, che non è più come una volta “esercito di popoli”. Nel 1948 l’esercito israeliano nacque con un’autentica ossessione del legame con tutte le classi sociali. Da allora quel legame si è via via ridotto. La percentuale di coloro che non compiono il servizio di leva è passato dal 12,1 per cento nel 1980 al 26 per cento di oggi, che salirà fino al 43 nel 2020.

    La cometa di Ehud Barak è emblematica della estraniazione sempre più crescente della vecchia nomenclatura militare rispetto alla popolazione. Ne è un simbolo il lussuoso attico, nel grattacielo Akirov di Tel Aviv, acquistato da Barak. Una “reggia” da sei milioni di euro. Nei giorni nitidi da lassù si vede anche il monte Hermon (alture del Golan). Oltre all’aria condizionata e rarefatta, gli inquilini hanno voluto sapientemente dosare anche la luce che entra dalle imponenti pareti-vetrate: quando la luminosità di Tel Aviv li abbaglia, attivano filtri nelle tende e nei vetri. I quali sono poi neutralizzati durante i tramonti. Nel salotto dei Barak non arrivano nemmeno i suoni della città perché in tutte le pareti sono disseminati altoparlanti che elargiscono un colto sottofondo di musica classica. Nulla a che vedere dunque con la modesta casa in legno, in un kibbutz del deserto, dove il fondatore del paese David Ben-Gurion trascorse gli anni finali del suo eremitaggio politico. O all’appartamento spartano di Tel Aviv dove il suo rivale ideologico, Menachem Begin, visse per decenni.
    Come ha scritto il direttore di Haaretz Aluf Benn, “è vero che altri politici possiedono ranch (Sharon) e ville (Netanyahu), ma il palazzo di Barak è situato nella strada principale, di fronte a tutti, non isolato nel Negev o a Caesarea”. Durante la sua parentesi apolitica dal 2001 al 2007, Barak ha macinato milioni di dollari come consulente di grandi corporation, come l’informatica Eds. Altri tempi quelli di Moshe Dayan. 

    Gerusalemme sta forse diventando un po’ meno Sparta e un po’ più simile ad Atene. Resta da vedere, per usare le parole del cekista Ehud Barak, se alla prossima grande crisi della sicurezza la nuova leva di civili saranno in grado di governare questa “villa nella giungla” chiamata Israele.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.