“Non smetto perché non posso smettere”

Il corpo della democrazia

Stefano Di Michele

Forse sta qui a morire, Marco Pannella. Qui nell’atrio di questa clinica a pochi passi dal mito anni Sessanta del Piper, una Madonna (da intendere Nostra Signora della Mercede, cui la struttura è degnamente intitolata) che scruta bianca e alta dall’angolo del cortile, suore che passano e guardano e sorridono – pure se Pannella sgrana gli occhi, e rovescia ogni tanto un raucoso, strozzato (e affettuoso: d’impazienza, d’affetto) “non capisci un cazzo!”, e sul tavolino lì davanti mucchi di vecchi numeri di Famiglia Cristiana e pure della mariana rivista l’Eco di Bonaria. Forse sta per morire, Marco.

    Roma. Forse sta qui a morire, Marco Pannella. Qui nell’atrio di questa clinica a pochi passi dal mito anni Sessanta del Piper, una Madonna (da intendere Nostra Signora della Mercede, cui la struttura è degnamente intitolata) che scruta bianca e alta dall’angolo del cortile, suore che passano e guardano e sorridono – pure se Pannella sgrana gli occhi, e rovescia ogni tanto un raucoso, strozzato (e affettuoso: d’impazienza, d’affetto) “non capisci un cazzo!”, e sul tavolino lì davanti mucchi di vecchi numeri di Famiglia Cristiana e pure della mariana rivista l’Eco di Bonaria. Forse sta per morire, Marco. Forse Marco non morirà mai. Forse Marco fa finta – come sempre, come sempre dicono i suoi detrattori. Forse è molto generoso – così da buttare cuore e respiro e reni sul piatto della causa derelitta (nobile altroché, figurarsi: ma nessuno intanto osa sfiorarla, come se fosse viscidissima cosa – se non con elevatissimi pensieri e bassissima azione) dei carcerati. Forse è molto scaltro. Forse è un po’ pazzo, persino. Ma è qui, qui sta: su questa poltrona bianca che si consuma e si prosciuga, che spalanca una bocca con grandi denti e fiato d’arsura e respiro di stoppia bruciata, labbra ferite e bianche – vorresti versarci dell’acqua, vorresti dirgli: beh, dài, almeno sorseggia ancora un po’ della tua pipì…

    Ti stringe, ti abbraccia, ti bacia. Ti fulmina con lo sguardo ridente e un po’ spiritato, con occhi che sembrano adesso quelli del nonno di ET, ti ringhia e ti tende le braccia: “E questo rompicoglioni qui?”. Te lo aspetti con il pigiama, abbandonato su un letto. Invece ha il suo solito doppiopetto blu (doppiopetto che, causa magrezza che scava e s’avanza, praticamente di ora in ora, è ormai un triplopetto, un quadruplopetto), la coloratissima cravatta, comodi jeans, allegre bretelle. Ma Pannella è diverso da Pannella, stamattina – forse il Pannella di cento altre volte, di cento scioperi della fame, di altre dolorose torture autoimposte con la sete, ma certo non il Pannella tondeggiante, volteggiante, bello e candido come un satollo e peccaminoso abate settecentesco. Così oggi è pieno di spigoli, di guglie come una cattedrale gotica, di capelli che avvampano disordinatamente, di mani mutate in artigli che afferrano. Ha sempre furia e fretta, Pannella, anche quando il pane e l’acqua mancano, e parole e respiro con loro – e gratta il respiro residuo, e hanno la consistenza delle pietre le parole, ma non una ne risparmia Pannella, e sempre replica e spiega e ti sommerge. Con l’urgenza che pare moltiplicarsi proprio con le forze che si sottraggono – con furia e fretta, appunto. La sua struttura toracica – similie ar Gregorio guardiano der pretorio: c’ho du’ metri de torace – è intatta, ma appare svuotata, galleria evacuata e cieca: grande e insieme fragile. Tutti ti dicono di smetterla… Sgrana gli occhi come davanti all’osservazione più cretina. “Non smetto perché non posso smettere! Lo capisci? Non facciamo questo per ottenere del potere, noi aiutiamo mostrando non i muscoli, ma il nostro magrore (magrore, dice, non magrezza, ndr)… Trasferiamo la nostra energia immateriale, il nostro spirito…”. Così, solo sulla poltrona bianca – e la Bernardini e Rovasio lì a fianco, e Sergio Stanzani, con le sue stampelle, che lo fissa amorevole e curioso, e lui che lo fissa amorevole e furioso: “Non capisci più un cazzo, c’hai novant’anni, sei morto! Dai, un bacio…”. C’è il mondo fuori, e tutte le storie e le lotte del suo mondo grande più di ottant’anni che arrivano e si affollano intorno – l’amnistia e la lista per le elezioni, il Vesuvio, il segretario nel Mali, il militante malmenato al Cairo, le accuse ripetute e ampliate a Napolitano, la commozione che s’affaccia negli occhi grandi quando ricorda il cardinale Wojtyla che lo ascoltava a Teleroma – a testimone vorrebbe chiamare Petroselli, che purtroppo è morto, e Rutelli, che “è vivo”. “Diceva: Pannella ci vuole bene, Dio ce l’ha dato, guai a chi ce lo tocca”.

    Ora pesa 73 chili, ieri erano 74 – ha perso 800 grammi in poche ore – lui immenso, quintalata abbondante… E tutti a dire che deve smetterla, giusta e saggia la sua battaglia, ma la piantasse di fare il matto… Così insopportabile, così indispensabile. Chissà se muore, Pannella. Elegante morirebbe, però. Ma no, verrà l’acqua, c’è sempre la pipì, forse l’attesa voce giungerà. Ma sì, che è pure capace di morire, questo qui – una sua bella morte, che mica bella era quella degli sciagurati di nero vestiti. Sei solo? Ti sorride quel sorriso che la magrezza estrema muta in ghigno – amichevole, però. Solo non è, assicura, solo non si sente: neppure tra i cattolici con l’eutanasia, neppure lo era tra i comunisti con il divorzio… E’ venuta la Severino, ha lasciato una lettera, per niente soddisfacente. E parlerebbe sempre, Marco – anche senza voce, anche mentre la lingua brucia e raspa come se fosse inghiottita dalla sabbia. Ha mangiato qualche caramella, con puntiglio le elenca – per poter parlare, ancora e sempre parlare. Sbuffa, abbraccia, sorride, bacia, “cazzo!”, urla, e di nuovo sorride. “Non posso continuare a non fumare”. Afferra il mezzo toscano, un altro bacio e Marco va. A fumare – con dissennato, bel disordine. Non a morire. Non ancora. Non ora.