Il rapporto sulla strage di Bengasi
Sintesi: la Libia è quasi una zona di guerra, al dipartimento di stato avreste dovuto trattarla come tale. Ieri è arrivato un atteso rapporto indipendente – mostrato in anticipo al Congresso – della commissione d’indagine sulla strage di Bengasi dell’11 settembre. La parte pubblica è lunga 39 pagine e sostiene che l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani quella notte furono uccisi perché la protezione delle due ville che ospitavano la missione diplomatica in quella periferia libica era “terribilmente inadeguata” alle circostanze.
Sintesi: la Libia è quasi una zona di guerra, al dipartimento di stato avreste dovuto trattarla come tale. Ieri è arrivato un atteso rapporto indipendente – mostrato in anticipo al Congresso – della commissione d’indagine sulla strage di Bengasi dell’11 settembre. La parte pubblica è lunga 39 pagine e sostiene che l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani quella notte furono uccisi perché la protezione delle due ville che ospitavano la missione diplomatica in quella periferia libica era “terribilmente inadeguata” alle circostanze. L’attacco dei terroristi ha avuto successo perché il dipartimento di stato è incapace di farsi trovare pronto, e questa sua incapacità è dovuta alle falle “nella gestione e nella leadership” dentro due uffici – quello che tratta il medio oriente e quello che si occupa della sicurezza dei diplomatici –, al coordinamento scarso tra i suoi uomini e anche alla “grande confusione” a Washington su chi deve prendere davvero le decisioni in materia di sicurezza. Il rapporto ammette che gli americani non avevano capito la situazione in Libia nel post rivoluzione contro Gheddafi: il paese è diventato un contesto pericoloso, infestato da milizie armate fuori controllo e la minaccia di attacchi s’è fatta presente e concreta. Non era necessario, c’è scritto, ricevere un avviso specifico in anticipo su un attentato contro l’ambasciatore per proteggerlo di più, era lecito aspettarselo a prescindere. Era necessario pensare alla sicurezza di Stevens come se fosse stato in movimento in uno degli altri contesti a rischio in cui sono presenti gli americani (come l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan).
Il rapporto ha toni durissimi ma non fa nomi, soprattutto quello del segretario di stato in uscita, Hillary Clinton, che subito ha reagito dicendo che accetta e metterà in pratica le 29 raccomandazioni in appendice: per esempio, i diplomatici americani vanno e vengono dalla Libia e restano troppo poco per capire davvero cosa succede, alcuni meno di quaranta giorni, i loro turni dovrebbero essere allungati a un anno di tempo. Il rapporto potrebbe essere una macchia sul curriculum della senatrice se dovesse decidere di presentarsi come candidata alla presidenza nel 2016, ma il suo impatto è ridotto. L’assistente segretario di stato per la sicurezza diplomatica, Eric Boswell, la sua vice Charlene Lamb e un terzo funzionario dell’ufficio per il medio oriente si sono dimessi dopo che il rapporto è stato reso pubblico. Teste minori, e il vederle rotolare non soddisfa la polemica su Bengasi alimentata dai repubblicani durante la campagna presidenziale. E’ stato detto che quella notte erano a disposizione rinforzi militari per correre in soccorso della missione attaccata e che “la catena di comando” americana rispose con uno “stand down”, non intervenite, alle richieste di aiuto degli assediati. La commissione d’indagine guidata dall’ex segretario di stato, Thomas Pickering, sgombra il campo da illazioni e rende un grosso favore all’Amministrazione: fu fatto tutto il possibile per salvare gli americani. Però smentisce una volta per tutte la prima versione data dalla Casa Bianca: quella sera si trattò di un attacco terroristico pianificato e deliberato, e non di una protesta di massa simile a quella che al Cairo nelle stesse ore minacciava il muro di cinta dell’ambasciata americana – questa prima versione smentita dai fatti è costata a Susan Rice, ambasciatrice alle Nazioni Unite, il posto di segretario di stato.
Il rapporto chiude i conti politici, non la caccia ai responsabili di al Qaida. La traccia s’interrompe alla fine di ottobre, all’ultima missione all’estero di David Petraeus, ex direttore della Cia, volato al Cairo per incontri riservati con i capi dei servizi segreti egiziani. Una settimana prima le forze di sicurezza – su indicazione americana – avevano fatto un raid in un appartamento a Nasr City, quartiere satellite a est della capitale. Il raid ha portato ad altri arresti e alla scoperta di legami tra l’attacco a Bengasi, le proteste contro gli americani al Cairo e la nascita di un nuovo fronte di al Qaida in Egitto, formato da ex detenuti liberati dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak. Il fronte gestisce un campo d’addestramento in Libia, ha traffici nel Sinai e ruota anche attorno alla figura di Mohammed al Zawahiri, fratello di Ayman, capo di al Qaida, e figura carismatica e simbolica per i salafiti egiziani.
Il Foglio sportivo - in corpore sano