Ingroia, la candidatura e la storia di un presepe nascosto tra le poltrone

Stefano Di Michele

“Io ci sto!” – inizia a declamare la bella presentatrice. “Pure noi!” – risponde una voce dalla sala (e s’intende, essendo qui tutta “società civile e politica pulita”, un aggregarsi alla nobile causa, mica uno scivolone verso l’olgettinismo). Scruta scruta, nella penombra – ce n’è più che nel folto della foresta guatemalteca – ma Ingroia ancora non si vede. “Ingroia non può salire sul palco se non liberano gli spazi laterali. Non viene da qui, viene dal retro...”. Per la verità viene dal Guatemala – e per inciso, l’unica effettiva (seppur indiretta) materializzazione dei chiacchierati Maya nel giorno tanto atteso della sfiga planetaria: tutto qua, alla fine, macché profezia, solo pm.

    “Io ci sto!” – inizia a declamare la bella presentatrice. “Pure noi!” – risponde una voce dalla sala (e s’intende, essendo qui tutta “società civile e politica pulita”, un aggregarsi alla nobile causa, mica uno scivolone verso l’olgettinismo). Scruta scruta, nella penombra – ce n’è più che nel folto della foresta guatemalteca – ma Ingroia ancora non si vede. “Ingroia non può salire sul palco se non liberano gli spazi laterali. Non viene da qui, viene dal retro...”. Per la verità viene dal Guatemala – e per inciso, l’unica effettiva (seppur indiretta) materializzazione dei chiacchierati Maya nel giorno tanto atteso della sfiga planetaria: tutto qua, alla fine, macché profezia, solo pm. Il “natale civile dell’altra politica”, come da accorta definizione, si sostanzia nel presepe in prima fila: De Magistris, Orlando, Di Pietro un po’ comprimario. E a lato del palco – dove è opportunamente sistemata la nativa (a nuova politica, si capisce, pulita e pure, società civile, civile davvero) capanna – una porticina si apre, uno spiraglio di luce (ché nel buio la sala sta, come nel buio tutta l’Italia sta, ché “l’Italia è sotto le macerie!”) filtra, qualcosa di luminoso si fa strada, un barlume s’intuisce. La stella cometa? Un taxi libero? Il tecnico dell’Enel? Macché: Antonio Ingroia. E’ scravattato – come appare pure sulle foto che invitano alla lotta: nella tenzone, liberi occorre stare, pur con bracciale (guatemalteco?) in vista. Applausi. Alza un volume: “Questa è la Costituzione della Repubblica italiana. In nome di questa Costituzione io sono qui…”. Un po’ se la tira, un po’ se la canta: “Ingroia si candida o non si candida?”. Fa dal palco qualche furbata berlusconiana: “Io ci sto? Voi ci state?”. E così quelli, neanche a dirlo: “Siiiiiiiiiiii...” – e faceva il Cav. nei bei giorni: “Io sono in campo per combattere i comunisti? Lo volete voi?”, e l’altro assembramento, figurarsi: “Siiiiiiiii...”. Non che l’oratoria ingroiana sia di travolgente struttura – professionalmente, qualcosa di requisitorio si sente, tra “ridare senso alle parole” e “battaglia da combattere” e “purtroppo il ventennio berlusconiano ha lavato il cervello”, mafiosi e piduisti, “l’Italia sta morendo” (e dai, ma vogliamo proprio mettere in allerta ’sti Maya?), “uomini con la schiena dritta”, “paese delle mafie e della corruzione”, pur con “un tesoro smarrito sul fondo dell’anima”, “un libro dei sogni”, e, udite udite, “non vogliamo un polo giustizialista e manettaro” – oh cribbio!, direbbe il Cav. Ma si vede che qualcosa brucia, nella certezza di Ingroia. Macché, mica i giornalacci prezzolati, mica gli incivili berlusconiani, mica i potenti che si fanno leggi e si fanno (in)giustizia – si sa, questo è pane per i denti del piemme palermitano (in rapida trasferta guatemalteca), toast per il tostapane quotidiano.

    Sono gli amici, cavolo, pure quelli costituzionalmente allertati, pure quelli al lavacro dell’ingegno berlusconiano sfuggiti. E quel telefonino che, ancora quando sta per immettersi nel cono di luce che lo rovescerà sul palco, fa bip-bip, e un altro sms, ancora! “Antonio, non lo fare! Non lo fare!”. Macché, Antonio lo fa. Come l’indimenticabile Rino Gaetano nella sua (pure lui: per primo lui) “E io ci sto” (“mi dicono alla radio statti calmo statti buono / non essere scalmanato stai tranquillo e fatti uomo / mai io con la mia guerra voglio andare sempre avanti / e costi quel che costi la vincerò non ci son santi...”) – e sarà per questo l’addio al Guatemala che, sostiene Wikipedia, sta a significare “paese dei tanti santi” – cuauhtemalan. E l’elenco, in questi giorni, si è allungato, dal direttore del Fatto ai giornalisti Corrias e Marco Lillio, da Cremaschi parecchio dubbioso (il suo successore Landini parecchio convinto), al collega Davigo, “io credo che i magistrati non debbano candidarsi alle elezioni politiche”. Poi, lo spintonamento a tanti dei presenti, da Di Pietro ai coriandoli delle tante sinistre caduti ai suoi piedi: “Il modo migliore per far fare un passo avanti alla società civile è fare un passo indietro” – e s’avanzino Landini, Santoro, don Ciotti, pure Ruotolo, “bambini venite parvulos”… Pare che lì al Capranica, ieri, qualcuno abbia rivalutato (a pericolo scampato) proprio la profezia Maya.