L'unione Monti-Pd non s'ha da fare

Francesco Forte

Nonostante che il programma di Mario Monti sia costruito per consentire al suo “rassemblement” di collaborare con il Pd, in un governo di centrosinistra spostato verso il centro, tuttavia a una fredda analisi economica contiene elementi antitetici destinati a far naufragare il compromesso. Il Fiscal compact europeo a cui l’agenda Monti chiede di aderire, perché ciò lo qualifica come europeista, comporta la regola del pareggio e la riduzione annua del 5 per cento del rapporto debito pubblico/pil.

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    Nonostante che il programma di Mario Monti sia costruito per consentire al suo “rassemblement” di collaborare con il Pd, in un governo di centrosinistra spostato verso il centro, tuttavia a una fredda analisi economica contiene elementi antitetici destinati a far naufragare il compromesso. Il Fiscal compact europeo a cui l’agenda Monti chiede di aderire, perché ciò lo qualifica come europeista, comporta la regola del pareggio e la riduzione annua del 5 per cento del rapporto debito pubblico/pil. Per raggiungere questi obiettivi non basta la patrimoniale sui più ricchi che Monti propone e che fa parte anche del programma del Pd. Essa, al massimo può dare 5 miliardi annui ossia lo 0,35-0,4 per cento del pil. Dopodiché o si inaspriscono ancora le imposte sui consumi e si lasciano ferme le aliquote Irpef e le agevolazioni per i contribuenti a basso-medio reddito per accrescere annualmente la pressione sui redditi reali, o si dà attuazione sistematica alla spending review dell’agenda Monti. Nella filosofia dei bocconiani fautori di tale “review” c’è l’inasprimento delle tasse universitarie nelle università statali, con esonero solo per i più meritevoli. E c’è l’applicazione del principio del merito agli insegnanti e, in genere, al pubblico impiego, particolarmente avversato dalla Cgil. Mi si ribatterà che queste particolari misure possono essere ridimensionate, per realizzare il compromesso con il Pd. E ciò può essere vero. Ma rimane la questione di dove tagliare la spesa sociale per aderire al Fiscal compact.

    C’è poi la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, che fa parte delle misure rivolte a dare un minimo di connotato liberale al programma dell’eterogeneo rassemblement montiano, che si avvale dei bocconiani e in cui accanto a partiti del centro moderato ci sono nuovi movimenti delusi dalla politica berlusconiana. Considerando come sono stati condotti dalla sinistra Pd-Vendola i referendum su queste privatizzazioni, in particolare per l’acqua, definita quale “bene pubblico” (una definizione che nessun trattato serio di economia accetterebbe, trattandosi di bene divisibile sia sul lato della produzione sia in quello della domanda), e considerando i centri di potere municipale del Pd, appare evidente che questo sarebbe un altro elemento di aspra discordia. C’è infine, e soprattutto, il settore del lavoro, nel quale Monti conta sulla figura carismatica di Pietro Ichino (ex Pd). L’agenda Monti ha incorporato, sia pure con frasi rivolte ad attenuarne gli spigoli, la riforma del lavoro di Ichino, che è anche lo studioso che ha scritto il programma di Monti. Ichino ha un modello di riforma che può dare al mercato del lavoro una rilevante flessibilità. In esso vi sono i contratti di lavoro aziendali di produttività, sia pure come derivato di quello unico nazionale che è al primo posto (io vorrei invece che il contratto nazionale diventasse secondario e che ci fosse il pluralismo contrattuale). Sinora la Cgil, però, non ha firmato i contratti di produttività. Nel modello Ichino c’è poi il superamento della cassa integrazione straordinaria e una riforma dell’articolo 18 con diritto di licenziare la manodopera in più su cui Elsa Fornero è stata bloccata. Una distanza lunare dalla Cgil e dai princìpi prevalenti del Pd. O ci prendono in giro o sono nozze impossibili.

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