Spike Lee ne soffre, ma la parola “negro” esiste anche lontano dai razzisti
Però – può non piacere, e certo poco piace – la parola “negro” esiste. Nelle più pessime intenzioni (un coglione razzista – se non si vuol applicare il politicamente corretto pure al coglione – la userà in un certo modo), per le migliori edificazioni (sul romanzo “Ragazzo negro” di Richard Wright le mejo coscienze democratiche si sono formate), per i più innocenti divertimenti danzerini (“siamo i watussi / gli altissimi negri…”), per le più classiche edificazioni (“pittore ti voglio parlare / io sono un povero negro…”).
Però – può non piacere, e certo poco piace – la parola “negro” esiste. Nelle più pessime intenzioni (un coglione razzista – se non si vuol applicare il politicamente corretto pure al coglione – la userà in un certo modo), per le migliori edificazioni (sul romanzo “Ragazzo negro” di Richard Wright le mejo coscienze democratiche si sono formate), per i più innocenti divertimenti danzerini (“siamo i watussi / gli altissimi negri…”), per le più classiche edificazioni (“pittore ti voglio parlare / io sono un povero negro…”). Come esiste la parola “mignotta” – hai voglia a scolorirla in escort – o la parola “frocio”, pur se evirata in gay o dolcificata in diverso (chiedere a un grande insospettabile come Paolo Poli, che tra “checche periferiche” e fiorire di “froci” nelle sue sagge e superbe interviste, riallinea insieme divertimento e buonsenso). Ma di tante parole finite sotto accusa, certo “negro” è la più vituperata. A ragione, magari, se si tien conto anche del vomito che ogni domenica, per dire, cola da qualche curva dello stadio, “buuuuuu… buuuuu”, ma pure a torto, a volte – e possono, le buone intenzioni, scivolare prima sul terreno del ridicolo, quindi del rifiuto.
Se qualche anno fa ci fu chi si incaricò persino di purgare (ché mutare ciò che in un certo modo era nato è appunto purgare: vedere “ricino, olio”, politicamente ancora concesso) “Huckleberry Finn” di Mark Twain – sconsiderati lamentosi che si azzardano a manomettere Twain – e qualcun altro ha smanettato pure Hemingway, sono stati persino celebrati a New York “i funerali simbolici della parola ‘negro’”, ché appunto le migliori intenzioni, quando fanaticamente agitate, sconfinano nella comica spesso, a volte nella tragedia. Adesso è la volta di Spike Lee. Il regista di “Fa’ la cosa giusta” ha fatto sapere che non andrà a vedere l’ultimo film del suo collega Quentin Tarantino, “Django Unchained”, perché, tra le altre cose, usa troppo spesso la parola “negro”. E del resto, in passato, accuse di razzismo furono mosse pure a Clint Eastwood e persino a Walt Disney. Tarantino ha avuto facile gioco nel replicare: “Nessuno può rinfacciarmi il fatto di aver usato nel film quella parola, non più di quanto la gente facesse nel 1858, nello stato del Mississippi, il luogo e il tempo in cui è ambientato il film”. E’ così che una particolare sensibilità sconfina in una singolare permalosità (“piagnisteo”, scrisse con ragione, anni fa, nel suo testo fondamentale, Robert Hughes), in una pretesa grottesca di voler far parlare come un intellettuale liberal newyorchese pure uno schiavista (lurido schiavista, va da sé) dell’Ottocento: allora, quando arriva il nuovo carico di afro-americani? – come se ogni prostituta (in esercizio, redenta, deprecata o esaltata) venisse spacciata per “traviata”. Ci sono di sicuro buone intenzioni, all’origine di questo “piagnisteo”, ma afferrato con esaltazione e furore la missione, la buona intenzione cede il passo alla comica risoluzione.
Così, lasciando da parte imbecilli infiltrati tra i tifosi o avvinazzati da osteria, basta rileggere certe riflessioni persino di Umberto Eco (“la tendenza ha assunto anche aspetti neoconservatori o francamente reazionari”) o le amare ironie di Natalia Ginzburg su “quei cadaveri di parole”. Oppure un saggio attento e dubbioso che uscì sulla rivista dei Paolini. Ogni parola è una lama a doppio taglio: persino parole onorate come “ebreo” o “beduino”. O “comunista” – il Cav., a volte in versione di statista-linguista. E comunque non dice mai “negro”: al più, volendo, “abbronzato”. Che poi possa essere un bene l’estensione sociale o persino legale dell’ipocrisia è tutto da vedere. Poi magari il film di Tarantino è solo brutto, ma certo il negriero da negriero (stronzo) giustamente parla.
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