Cina e India sono un tesoro da 10.000 miliardi di dollari da conquistare

Alberto Brambilla

Tutto è cambiato da quando i capitalisti venivano considerati dei nemici della società, dello stato, del bene comune. Venivano perseguitati, inquisiti e le loro proprietà espropriate sull’altare di Pechino. Così la dottrina del padre della patria comunista Mao Tse Tung è stata definitivamente dimenticata e il maoismo sconfitto senza appello. E’ questa la conclusione di una lunga inchiesta del quotidiano statunitense Wall Street Journal.

    Tutto è cambiato da quando i capitalisti venivano considerati dei nemici della società, dello stato, del bene comune.  Venivano perseguitati, inquisiti e le loro proprietà espropriate sull’altare di Pechino. Così la dottrina del padre della patria comunista Mao Tse Tung è stata definitivamente dimenticata e il maoismo sconfitto senza appello. E’ questa la conclusione di una lunga inchiesta del quotidiano statunitense Wall Street Journal che evidenzia come sia invece passato alla storia e sia diventato realtà il “consiglio” alla nazione lanciato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta dal presidente riformatore Deng Xiaoping: “Diventare ricchi è glorioso”. E l’evidenza sta nei fatti. Prima della successione ai vertici del Partito comunista cinese, avvenuta questo novembre, i suoi membri erano funzionari, militari, espressione diretta dello stato e della sua burocrazia ai posti di comando e soprattutto all’interno dell’Assemblea nazionale del popolo, l’unico organo legislativo. Lì oggi siedono fieri i super ricchi della nuova Cina, gli alfieri del consumismo. “L’organo legislativo cinese – scriveva il Wall Street Journal – può fare vanto di avere al suo interno più ‘ricchi’ di qualsiasi altro simile organo su tutto il pianeta. Settantacinque dei suoi quasi tremila membri compaiono nella lista stilata da Horun Report 2012 dei 1.024 più ricchi del paese”. Nel complesso detengono in media un patrimonio poco superiore al miliardo di dollari (al Congresso americano la ricchezza dei più benestanti è compresa tra 1,8 e 6,5 miliardi, secondo il think tank di Washington Center for Responsive Politics).
    Anche se questi dati possono impressionare, non foss’altro perché l’odierna Cina è di fatto governata da una classe dirigente che per suo stesso interesse è votata al business (e deciderà, si presume, di conseguenza), la fotografia dell’élite più ricca resa dal Wsj rappresenta solo una piccola porzione di una società capace di guadagnare e soprattutto di spendere come mai prima d’ora. Situazione che accomuna la Cina all’India che insieme rappresentano una “muraglia di soldi” che l’occidente in crisi può imparare a sfruttare guadagnando a sua volta. Il piatto è ricco: in palio c’è un premio da 10.000 miliardi di dollari. “The ten trillion dollar prize - Captvating the newly affluent in China and India”, come accattivarsi la nuova “opulenza” in Cina e India, è il titolo di un saggio-inchiesta degli economisti della società di consulenza statunitense Boston consulting group (Bcg). Un viaggio nei due paesi economicamente più promettenti (e popolosi) nel quale sono riportate storie di imprenditori, negozianti, studenti, di fatto produttori e consumatori. Persone che, con le loro ambizioni, costituiscono l’ossatura di un Oriente fiducioso nel futuro, capace di lavorare sodo, e di difendere lo status acquisito. Le storie degli intervistati (sono centinaia) ricordano l’ascesa dall’abisso del “self-made-man”, di chi si è “fatto da solo” (in molti casi nonostante un ambiente ostile) e riprendono il mito del “sogno americano” ma profumano di cumino, aglio, zenzero e “abitano”, ad esempio, nelle periferie delle megalopoli del produttivo Zhejiang. 

    C’è un tesoro a Pechino e Nuova Delhi
    Accomunare Cina e India dal punto di vista economico può sembrare un azzardo, soprattutto perché il loro sviluppo parte da presupposti completamente differenti (la Cina è ancora un’economia di stato, quando si parla dei colossi nazionali, e le privatizzazioni e l’abbattimento delle barriere doganali non fanno parte delle sue caratteristiche peculiari, come invece è accaduto in India in particolare per le piccole e medie imprese). Il risultato, il punto al quale siamo oggi, e i fattori che accomunano i due paesi sono però pressoché identici: “L’aumento esponenziale della popolazione, l’ascesa della potenza economica, e – più importante di tutto – una massa emergente di persone ambiziose, una classe media che vuole sempre di più, adesso. […] Entro il 2020 i consumi annuali toccheranno i 4.200 miliardi di dollari per la Cina e i 2.600 per l’India”, scrivono gli analisti di Bcg avvertendo che “chiunque abbia aspirazioni globali (il riferimento è ai Ceo delle grandi aziende e agli imprenditori, ndr) dovrà riuscire a competere con successo con entrambi”e “non c’è più tempo da perdere”. Che il “momento sia adesso” lo si deduce da due semplici dati economici: “Entro il 2029, se non prima, la Cina avrà superato gli Stati Uniti diventando la prima economia mondiale per grandezza. Entro il 2028, l’India avrà invece probabilmente superato la Germania e il Giappone, piazzandosi come terza economia del mondo”. Questo accadrà sulla spinta di un incremento della produttività del lavoro e grazie al dispiegamento delle riforme messe in campo nel ventennio passato. La conseguenza diretta è un aumento proporzionale dei consumi: “Abbiamo calcolato che tra il 2010 e il 2020, la popolazione di Cina e India consumerà beni e servizi pari a 64.000 miliardi di dollari. I consumatori cinesi, lungo questo lasso di tempo, ne spenderanno 41.500, con un incremento annuale della spesa del 203 per cento passando da 2.000 a 6.200 miliardi annui. Gli indiani – prosegue il calcolo del Bcg – spenderanno 22.500 miliardi con le spese annuali che passeranno da 991 a 3.600 miliardi, un incredibile aumento del 261 per cento. In altre parole, spenderanno circa 10.000 miliardi l’anno entro il 2020”. E questo è il premio da conquistare.

    La forza “interiore” della classe media
    C’è un minimo comune denominatore che unisce la classe media cinese e indiana, la classe dei “nuovi rivoluzionari”. Un idem sentire e una speranzosa visione del futuro permeata da un ottimismo che è ormai difficile da ritrovare in occidente. La partenza è la stessa in molti casi, le umili origini, che unita all’intenzione di creare una vita migliore per sé e per i propri figli (e così quasi esorcizzare i racconti di povertà e privazione tramandati dai nonni) porta alla costruzione di un sogno: il motore che porta a una vita migliore “riempita con beni materiali – inclusi un’automobile e una casa – così come grandi esperienze di viaggio e attività ricreative, oltre all’accesso alla sanità più avanzata e a un’educazione di alto livello”.
    “La mia vita è bella, molto più di quanto speravo […] e non andrà a ritroso, ma solo avanti. Il progresso sarà ovunque”, dice Rakesh Kumar Sahu, ristoratore di Lucknow, capitale del più popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh. Trentanove anni, sposato e con un figlio quattordicenne aveva cominciato come venditore di snack per le strade, ora guadagna 10 mila dollari l’anno, rietra senza dubbio nella classe media indiana. Secondo gli analisti della Bcg, il “ritratto della upper-middle class” è quello di Zhou Zhanghong, imprenditrice trentatreenne di Shanghai. Non ha potuto studiare per lasciare questa possibilità al fratello maschio. Ha cominciato a lavorare a diciotto anni in una stamperia industriale. Appreso il mestiere, ha fondato la Shanghai Jingma Gift Company con il marito.  Vende vari articoli di cartoleria e idee regalo: un’azienda con venti impiegati che fattura (grazie anche alle vendite online) tre milioni di dollari l’anno. Si può permettere di avere due figli (per via della politica del figlio unico che resiste dal 1978 ha dovuto pagare una tassa da 20 mila dollari sul secondogenito). E se al suo villaggio l’elettricità è arrivata solo quando aveva vent’anni e per tutti c’era un’unica televisione, adesso ne possiede una a schermo piatto, ha due appartamenti, due macchine e tutte le comodità casalinghe ben note al consumatore occidentale, come il microonde. “Penso che finché lavorerò sodo raggiungerò qualsiasi obiettivo. La vita è piena di opportunità e può solo migliorare”, afferma senza incertezze.

    Incontrare i desideri dei “nuovi ricchi”
    E’ un sentimento quello di Rakesh, Zhanghong e di molti altri che, in termini economici, si traduce in propensione al consumo. “Secondo un nostro sondaggio su ventiquattromila consumatori in tutto il mondo – rivela il libro –  il 36 per cento dei cinesi e il 19 per cento degli indiani si aspettano di incrementare la propria spesa personale durante i prossimi 12 mesi. A confronto solo l’11 per cento degli americani, l’8 per cento degli europei e il 5 per cento dei giapponesi sono disposti a fare lo stesso”. Inoltre, si aggiunge, il 39 per cento dei consumatori in Cina e il 34 in India puntano su prodotti di alta qualità. Per questo motivo, il primo ma più importante consiglio spiegato da Bcg a chi ha intenzione di competere per il “premio”, è quello di incontrare i desideri di questi nuovi consumatori. La regola è “soldi per valore”. Ogni spesa infatti, poiché il guadagno è sudato, è sempre ben ponderata e quindi l’alta qualità (e l’affidabilità) del prodotto offerto è una condizione fondamentale per giustificare una spesa di qualsiasi tipo. L’“Eldorado” asiatico, avvertono infine gli autori del libro, non è un percorso privo di rischi. Le variabili da considerare sono molte e riguardano la “volatilità”, e cioè l’imprevedibilità, delle economie asiatiche, dove ancora pesano la burocrazia, lo statalismo pervasivo e la corruzione.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.