Biografia politica di Giorgio Napolitano / 1
Il comunista che salvò l'Italia
Quando, nell’estate del 2011, l’Italia si è trovata al centro di una pressione finanziaria internazionale di inusitata potenza, alla quale il governo di Silvio Berlusconi, con una maggioranza ormai sfilacciata, non sembrava in grado di far fronte, Giorgio Napolitano si assunse la responsabilità di aprire una fase politica completamente nuova e di imporla alle maggiori forze parlamentari.
Quando, nell’estate del 2011, l’Italia si è trovata al centro di una pressione finanziaria internazionale di inusitata potenza, alla quale il governo di Silvio Berlusconi, con una maggioranza ormai sfilacciata, non sembrava in grado di far fronte, Giorgio Napolitano si assunse la responsabilità di aprire una fase politica completamente nuova e di imporla alle maggiori forze parlamentari. Questa rivoluzione felpata nelle forme ma contundente nella sostanza esprimeva una capacità di persuasione e di condizionamento esercitata da una personalità politica che veniva da un passato controverso, con radici in un’ideologia superata, caratterizzato più da sconfitte che da successi. Il paradosso di questa contraddizione tra un passato onorevolmente mediocre e un presente apparentemente titanico è stato poco esaminato, quando non addirittura trascurato o occultato. Invece scavando in questa dialettica si possono forse rintracciare le radici dell’operazione Monti e vedere come questa si inscriva in tendenze di lungo periodo della vicenda italiana, che si sono rispecchiate in modo specifico in quella di Napolitano.
Il problema della straordinaria forza politica espressa da Napolitano in questa circostanza cruciale merita di essere esaminato in profondità. Molti hanno attribuito questa forza inattesa soltanto al potere istituzionale che investe il Quirinale in momenti critici della vita nazionale e in particolare quando la dialettica parlamentare appare incapace di prospettare autonomamente soluzioni. Questo è vero, e Napolitano stesso ha fatto riferimento ai poteri quasi straordinari che competono al presidente della Repubblica in tali circostanze speciali. Tuttavia, se si guarda a come in casi precedenti altri presidenti (e lo stesso Napolitano in occasione della crisi determinata dalla sfiducia parlamentare al secondo governo di Romano Prodi) non siano riusciti a portare a termine un tentativo conciliatore o abbiano scatenato polemiche roventi quando hanno innescato meccanismi di ribaltamento delle maggioranze elette, si vede che nella forza politica espressa in quest’occasione da Napolitano c’è qualcosa di più della pur rilevante espansione della funzione istituzionale in una fase di crisi politica. Questo “qualcosa di più” è il risultato di un’azione politica costantemente rivolta a contenere le asprezze eccessive del confronto politico, con uno spirito costruttivo che è stato alla fine apprezzato da tutti e, questo è il dato significativo, soprattutto dalla parte politica che non aveva contribuito alla sua elezione.
Le radici di questa azione concreta, svolta in nome della rappresentanza dell’unità nazionale ma intessuta di una specifica cultura politica è un tema di indagine interessante, nel quale si possono talora rintracciare i riverberi di antiche debolezze o insufficienze, ribaltate in fattori di forza per effetto di una reinterpretazione consapevolmente critica ma mai liquidatoria, che è la cifra forse meno appariscente ma più efficace dello stile e, si potrebbe dire, della personalità di Giorgio Napolitano.
L’efficacia dell’operazione Monti è controversa e un giudizio più meditato sarà possibile solo quando si potrà farne un bilancio e sapere qual è stato l’effetto politico, cioè quale governo ne assumerà l’eredità, e quello economico. Bisogna distinguere tra il valore dell’operazione, che va determinato attraverso un esame della fase precedente, delle alternative possibili e dell’effetto immediato che ha avuto sulla dinamica politica ed economica, e la sua efficacia, alla quale tuttavia è utile dedicare un’analisi, seppure ovviamente provvisoria.
Sul piano politico l’incarico conferito a Mario Monti e la fiducia che ha ottenuto con un consenso numerico assai ampio in Parlamento hanno significato la creazione di una maggioranza di fatto e di diritto diversa da quella emersa dalle elezioni, che si era andata sfarinando nel corso dell’anno precedente, nuova maggioranza aritmetica che però non era e non è diventata un’alleanza, neppure provvisoria e temporalmente delimitata.
Se non ha costruito una nuova coalizione, però, l’operazione Monti ha distrutto le coalizioni precedenti, già minate da tensioni evidenti, che sono diventate esplicite quando si è trattato di assumere responsabilità concrete nell’approvazione di norme e di riforme consistenti proposte dall’esecutivo.
Il programma del governo è il rispetto degli impegni chiesti dalla Banca centrale europea, già accolti dal governo di Silvio Berlusconi che però fu indotto a dimettersi perché la sua maggioranza non sembrava in grado di sostenerli in Parlamento. La Banca centrale europea, in cambio dell’impegno a una spinta riformista più credibile, ha attivato operazioni straordinarie di finanziamento delle banche che a loro volta hanno acquistato titoli pubblici, in Italia come in Spagna, il che ha ridotto, finché è durato il finanziamento straordinario della Bce e il suo intervento sul mercato secondario a sostegno dei titoli di stato, il differenziale tra rendimento dei titoli tedeschi e italiani. Quando quel soccorso europeo è cessato o si è fortemente attenuato, i differenziali sono nuovamente schizzati in alto, e solo l’impegno assunto da Mario Draghi a fare tutto il possibile per salvare l’euro ha avviato una nuova tendenza più riflessiva.
C’è stato un effetto Draghi o un effetto Monti? Si tratta di una domanda rudimentale e sostanzialmente speciosa, ma può servire a comprendere il ruolo centrale dell’interdipendenza, che è al centro delle riflessioni di Giorgio Napolitano e dell’azione del “suo” governo. E’ proprio su questo nodo sensibile che l’azione concreta del governo ha ottenuto i risultati più rilevanti, correggendo in extremis una deriva che portava nuovamente a una sostanziale subalternità italiana nel contesto europeo e internazionale. Napolitano ha la funzione istituzionale di garantire l’indipendenza della nazione, che ovviamente va interpretata nel quadro concreto degli impegni e delle alleanze. Ha un’esperienza di prima mano delle difficoltà che incontra una media potenza a farsi accettare come interlocutore alla pari, esperienza che ha maturato in modo originale sia nella ricerca di margini di indipendenza del Pci nel sistema sovietico, sia nella critica esercitata per decenni nei confronti del ruolo ritenuto subalterno dell’Italia nella Nato e anche nella Comunità economica europea.
Da queste esperienze ha tratto un’elaborazione originale, rielaborando oggi in modo efficace impostazioni del passato segnate invece da limiti oggettivi e da errori soggettivi.
In sostanza si tratta della consapevolezza che solo la piena coscienza dei dati oggettivi di interdipendenza e il rispetto rigoroso e volontario dei vincoli che ne derivano consentono di esercitare una funzione non subalterna, che è l’espressione moderna del principio di indipendenza. Napolitano ha rielaborato la lezione di Giorgio Amendola, che riuscì a superare la tradizionale ostilità del Pci alla Comunità europea, considerata secondo lo schema sovietico una struttura di concertazione capitalistica legata a doppio filo all’egemonismo americano, insistendo proprio sull’interdipendenza delle economie europee che ne era comunque un effetto del quale bisognava prendere atto per non restare fuori dalla realtà.
Amendola non si occupò allora (e neppure in seguito, a differenza di Napolitano) di superare o correggere il giudizio ideologico sulla Comunità europea. Anche se si trattava dell’Europa dei banchieri e dei monopoli, spiegò, era la cornice reale nella quale si svolgeva la dialettica economica, che Amendola interpretava come lotta di classe, e ne trasse la conclusione che su quel terreno il partito della classe operaia doveva misurarsi. E’ evidente il limite e l’ambiguità di questa tattica, ma anche la capacità politica di far prevalere un principio di realtà sulla lettura ideologica.
La rielaborazione condotta da Napolitano, anche in base alle esperienze successive, ripropone il nucleo di quella concezione, e produce una lettura realistica del rapporto tra indipendenza nazionale e interdipendenza europea che è diventata la base culturale del governo Monti ed è stata accettata, per la sua forza intrinseca, da un arco di forze assai ampio, che in precedenza si era invece esercitato nello sport del rinfacciamento reciproco della scarsa coerenza europeista e, insieme, dell’insufficiente attenzione agli interessi nazionali.
Nel 2011 l’indipendenza dell’Italia era a rischio, ma questa circostanza rappresentava l’esito di un lungo periodo di sostanziale subalternità. Con la dissoluzione dell’impero sovietico (e della federazione Yugoslava) e la riunificazione tedesca il panorama politico europeo e internazionale mutò di segno e rese marginale la collocazione geopolitica italiana, fino ad allora essenziale nell’equilibrio di potere tra occidente e oriente. Non è chiaro se questa fu la principale ragione che provocò indirettamente la dissoluzione delle formazioni politiche tradizionali che avevano interpretato in Italia il clima di fronteggiamento tra i blocchi per mezzo secolo. E’ comunque un fatto che dopo la caduta del Muro di Berlino venne meno l’interesse americano per la stabilità politica dell’Italia, che il sistema di finanziamento illecito dei partiti che dovevano competere con un Pci foraggiato da Mosca non aveva più ragion d’essere, che settori della classe dirigente economica si sentirono liberi di stracciare le antiche alleanze politiche, costose e ormai non più indispensabili.
Così l’Italia si trovò a dover partecipare alla nuova scena europea, determinata dalla proposta di Helmut Kohl per “una Germania unita in un’Europa unita”, in una situazione di profonda crisi economica e di straordinaria debolezza della rappresentanza politica. Nella costruzione dell’euro l’Italia non esercitò alcuna funzione autonoma. Dopo il disastro economico e la svalutazione colossale del ’92 la lira era considerata una divisa troppo debole per integrarsi nella moneta unica. Napolitano era ministro del governo di Romano Prodi che dovette accettare un concambio penalizzante per essere ammesso nell’euro, il che era destinato a pesare sulla già debole propensione alla crescita della nostra economia. Napolitano non ha mai nutrito dubbi sulla necessità di quel sacrificio, ma non gli è sfuggito il ruolo ancillare giocato dall’Italia nella vita dell’Europa a moneta unica.
Le crisi che si sono susseguite dal 2008 hanno messo in chiaro questa condizione, nonostante i tentativi generosi ma piuttosto velleitari di Giulio Tremonti di acquisire una visibilità e una credibilità europea, magari a scapito del suo presidente del Consiglio.
Mario Monti, forte di una protezione inossidabile del Quirinale e di una maggioranza parlamentare numericamente assai ampia, aveva il mandato di recuperare un ruolo nazionale nel concerto europeo e ha in sostanza realizzato questo obiettivo, che era poi il mandato più urgente del Quirinale. Naturalmente questo recupero di credibilità non cambia i dati strutturali, caratterizzati dalla dimensione del debito e dalla decrescita produttiva, che le diverse manovre, con una prevalenza netta di aumenti di tasse rispetto ai tagli della spesa, non hanno intaccato. La prospettiva resta fortemente condizionata dalle operazioni che metterà in campo la Banca centrale europea, l’effetto Draghi continua a pesare di più dell’effetto Monti, ma il quadro è cambiato con il vertice europeo di fine giugno, in cui anche grazie a una avvertibile pressione italiana, è stato varato un percorso di rafforzamento degli strumenti di difesa della moneta europea, che costituisce la piattaforma politica sulla quale si sta costruendo, non senza contrasti, il nuovo modello operativo delle istituzioni finanziarie europee, fondi e Banca centrale.
Il governo ha potuto affrontare queste sfide ed evitare il commissariamento europeo (sostituito da una sorta di autocommissariamento) grazie alla protezione esplicita del Quirinale, che punta a confermare anche per la prossima legislatura la sostanza di quell’impegno di responsabilità che ha imposto ai partiti di maggioranza.
Contro questa prospettiva, ancora incerta e controversa, si è scatenata (ed è ancora in corso) una campagna che investe direttamente il Quirinale, che nella gestione di Napolitano si è affermato come il centro decisionale più rilevante, come il presidio del primato della politica e delle istituzioni, contestato da un ampio fronte che collega il fondamentalismo giustizialista con l’antagonismo sociale. La stessa inusitata virulenza dell’attacco, l’ampiezza della partecipazione di settori dell’intellettualità, per la prima volta schierati contro il Quirinale, dà la misura della forza politica di cui ha dato prova Napolitano, che ha aperto di fatto una fase nuova della dialettica interpartitica che tendenzialmente modifica lo stesso sistema politico.
La consapevolezza della dimensione di questa trasformazione è ancora scarsa tra le forze che, più o meno coattivamente, vi hanno collaborato, mentre appare chiarissima a chi vi si oppone con tutti i mezzi. Un esame articolato delle radici politiche e culturali, anche assai lontane, di questa svolta può forse servire a correggere questa paradossale asimmetria.
(1. continua)
Il Foglio sportivo - in corpore sano