Frustata di Natale
La pigrizia riformista di Hollande preoccupa il Fmi
In una Washington già deserta per le vacanze appena cominciate, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha pubblicato il rapporto di sorveglianza annuale sulla Francia il venerdì pomeriggio a ridosso del Natale. Contravvenendo a una sua prassi, non lo ha condiviso con la stampa con l’usuale margine di anticipo rispetto alla pubblicazione online, pur offrendo una conference call in cui potere chiedere chiarimenti e fare domande. Un altro dettaglio, anch’esso non insignificante, è che questa conferenza stampa telefonica si è tenuta il giorno di Santo Stefano. Cosa c’è dietro questa apparente strategia di “insabbiamento”?
In una Washington già deserta per le vacanze appena cominciate, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha pubblicato il rapporto di sorveglianza annuale sulla Francia il venerdì pomeriggio a ridosso del Natale. Contravvenendo a una sua prassi, non lo ha condiviso con la stampa con l’usuale margine di anticipo rispetto alla pubblicazione online, pur offrendo una conference call in cui potere chiedere chiarimenti e fare domande. Un altro dettaglio, anch’esso non insignificante, è che questa conferenza stampa telefonica si è tenuta il giorno di Santo Stefano. Cosa c’è dietro questa apparente strategia di “insabbiamento”? La risposta è, naturalmente, nello stesso rapporto.
Cominciamo dalla politica fiscale. La Francia parte da una posizione di disavanzo di bilancio assai più precaria dell’Italia. Nel 2009, il deficit era pari al 7,5 per cento del pil (in Italia era del 5,4). Nell’anno che si è appena chiuso tale deficit è sceso al 4,5 per portarsi al 3,5 per cento a fine 2013, anno nel quale il nostro bilancio pubblico dovrebbe, invece, chiudersi in pareggio. Per chiudere la forbice, le autorità d’oltralpe hanno detto di aver bisogno di altri 5 anni e di dover aspettare sino al 2017. Nonostante l’ampio lasso di tempo, il Fmi mostra di avere dei dubbi reconditi riferendosi al bilancio in pareggio nel 2017 come un “obiettivo”. Altrove, preferisce usare termini più neutrali come “medio termine” eliminando del tutto qualsiasi scadenza temporale. Certo, la Francia non ha il debito pubblico dell’Italia anche se la traiettoria mostrata negli ultimi anni è, forse, più preoccupante. Nel periodo 2009-’14, il Fmi prevede un incremento di quasi 12 punti percentuali nel rapporto debito pil.
In effetti, il graduale consolidamento fiscale è un punto di forza più che di debolezza della strategia di François Hollande, mettendo al riparo la Francia dalle strettezze di un rigore, almeno sinora, non necessario per l’economia transalpina. Di questo il Fmi gliene dà atto, andando persino oltre, quando nota che “un passo più misurato sarebbe stato preferibile…, ma il rigore imposto dai mercati e dall’Eurozona hanno ridotto il margine di manovra” delle autorità. Eppure, solo nel luglio scorso, l’istituzione di Washington giudicava appropriata la cura da cavallo dell’Italia con un aggiustamento fiscale pari a circa 5 punti di pil nel solo periodo 2011-’13. A metà del rapporto, compaiono finalmente quelle due righe che rappresentano il succo del Fondo-pensiero e forniscono la metrica con cui l’istituzione valuta gli attuali sviluppi della risposta francese alla crisi: “Dato che il rischio di un imminente collasso [dell’Eurozona] è stato evitato, la politica economica si deve concentrare sulle riforme strutturali, a livello delle singole economie, per migliorare la competitività e innalzare il tasso di crescita potenziale dell’economia”. Proprio su questo punto la Francia è in gravi difficoltà per le persistenti rigidità nel mercato del lavoro e dei prodotti. Il calo della competitività dell’economia francese si è tradotto nella riduzione del suo grado di apertura internazionale.
In termini percentuali il calo sostenuto della competitività dell’economia francese si è tradotto in una riduzione del suo grado di apertura internazionale di 9 punti rispetto alla media dell’Eurozona nel periodo 2000-’10. Come dire che da quando la Francia è entrata nell’Eurozona anzichè profittare delle maggiori opportunità di scambio è diventata più chiusa: un vero paradosso che sottolinea i problemi di sostenibilità della moneta unica in assenza di drastiche riforme. Non a caso, si è attenuata la correlazione del pil francese con la dinamica dell’economia globale. In questo quadro, le imprese internazionali francesi sono riuscite a sostenere un livello di prezzi competitivo con l’estero ma al costo di ridurre i margini di profitto, compromettendo la rispettiva capacità di investimento.
A fronte di una scossa di competitività auspicata dal Fmi e da alcuni imprenditori francesi, Parigi ha risposto con misure selettive e incrementali da attuare (molto) gradualmente. Nel complesso, dalla presidenza Hollande non emerge un’agenda compiuta di riforme suscettibile di essere implementata con tutta la determinazione e il vigore politico che la dimensione del problema richiederebbe. Eppure, l’esperienza insegna che sono i primi mesi di governo quelli più fecondi in termini di progettualità e di impulso riformista grazie all’effetto “luna di miele”.
D’altro canto, nel 2012 la Francia si è posizionata al 34esimo posto – un peggioramento di due posizioni rispetto all’anno precedente – nella classifica annuale stilata dalla Banca mondiale che valuta l’attrattività che la sua economia presenta per gli investimenti. Sebbene un risultato migliore di Spagna (44) e Italia (73), la Francia è arretrata di parecchie posizioni rispetto alla Finlandia (11), all’Irlanda (15), alla Germania (20), all’Estonia (21), all’Austria (29), al Portogallo (30), all’Olanda (31) e al Belgio (33).
Disappunto tedesco per l’inerzia francese
E’ evidente che il rapporto del Fmi non sfuggirà a quei circoli politici tedeschi che nutrono un crescente disappunto nella performance riformista dei governi francesi, di qualsiasi colore. Il “contratto” che la Germania aveva implicitamente sottoscritto con la Francia (e con l’Italia) – dicono a Berlino – era di rinunciare, in parte, alla propria sovranità monetaria in favore della moneta comune, per beneficiare, in cambio, di maggiori opportunità commerciali nelle economie riformate dell’Eurozona. Invece, nel periodo 2000-’12, la quota delle esportazioni tedesche nei paesi dell’Eurozona è diminuita di oltre 7 punti percentuali. Quella verso i paesi emergenti (Brasile, Russia, India e Cina) è, al contrario, aumentata dello stesso ordine di grandezza. Secondo la banca d’affari Goldman Sachs, entro il 2020, le quote dell’export tedesco verso le economie dell’Eurozona diminuiranno di quasi 12 punti percentuali mentre aumenteranno di 20 punti nelle economie emergenti. Che fare? si chiedono a Berlino.
Molto dipenderà da come l’onda d’urto imposta all’Italia nell’ultimo anno e mezzo continuerà a dare frutti in termini di riforme. In tal caso, a Berlino guadagneranno terreno coloro che spingono perché la Germania ritiri la “garanzia” implicita che, sinora, ha posto la Francia al riparo dalle pressioni dei mercati. Se così fosse, il prossimo futuro potrebbe serbare un nuovo, inedito capitolo per l’eurocrisi.
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