Il Cav. e Monti, due stili a duello

Alessandro Giuli

Quello di Mario Monti e Silvio Berlusconi è un duello tra vasi non comunicanti nei quali scorrono due egocentrismi smisurati e opposti. Due emisferi, due caratteri, due stili che si fronteggiano senza un comune denominatore, se non quello della koinè padana. Ma anche a questa latitudine non c’è condivisione riconoscibile: mitteleuropeo glaciale, il professore bocconiano, nato insubre (Varese) e proiettato verso il decisionismo asburgico temperato dal protestantesimo berlinese; milanese di nascita ma brianzolo per vocazione, il Cav.

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    Quello di Mario Monti e Silvio Berlusconi è un duello tra vasi non comunicanti nei quali scorrono due egocentrismi smisurati e opposti. Due emisferi, due caratteri, due stili che si fronteggiano senza un comune denominatore, se non quello della koinè padana. Ma anche a questa latitudine non c’è condivisione riconoscibile: mitteleuropeo glaciale, il professore bocconiano, nato insubre (Varese) e proiettato verso il decisionismo asburgico temperato dal protestantesimo berlinese; milanese di nascita ma brianzolo per vocazione, il Cav., dunque homo faber/ludens nella triplice accezione d’imprenditore e impresario e teatrante pour soi-même. Berlusconi è il pre-politico che ha politicizzato la sua privatezza (e talora privatizzato la cosa pubblica); Monti è l’accademico che sottrae la politica alla sua dimensione professionale per laurearla nel rettorato dell’eurotecnocrazia.

    Perfino il linguaggio diventa un’occasione per manifestare il vallo che li separa. Quando il Cav. dà a Monti di aspirante leaderino centrista, appena sceso dalla giostra di un’altrui maggioranza trattata con ingratitudine e sicumera, si coglie quel tratto di degnazione caratteristico del padroncino spodestato e insofferente nei confronti di un salariato di lusso che transita da un datore di lavoro all’altro (l’Europa germanocentrica e i misteriosi mandanti del complotto demo-pluto-clericale, nella più nobile versione della denuncia berlusconiana; Casini e Fini nella declinazione più tesa a immiserire l’avversario).

    E quando Monti risponde all’aggressore brianzolo ammettendo che fatica “a seguire il suo pensiero”, che Berlusconi lo “confonde sul piano logico”, che la sua minaccia d’una commissione d’inchiesta contro il successore è “un’idea stravagante” ma ben venga, non è difficile comprenderne il sottotesto implicito – il Cav. ha fatto finta di offrirmi il suo reame elettorale e, ora che me lo voglio conquistare da solo, la butta in caciara – ma quel che più risalta è altro. E’ il ricorso montiano a un modulo di contrattacco del tutto inedito, perché fondato sul distacco assoluto dal suo contendente, di cui rifiuta l’insieme etologico. Monti oppone agli attacchi berlusconiani una questione d’inavvicinabilità cognitiva che surclassa il disprezzo antropologico cui fa ricorso il discorso pubblico dei finti-patrizi della sinistra, nega ogni assimilazione dialettica, in poche parole fa l’avulso. Il che vale e varrà in modo sempre più nitido anche nei confronti di Pier Luigi Bersani e del suo corredo vendolian-manettaro, destinati prima o poi a imbracciare un’accusa analoga a quella del Cav.: Monti si fa il suo partitino.

    E invece non è così, o almeno così non è nelle premesse dell’essere montiano. Nella natura del preside bocconiano sono assenti la volontà e la capacità di fondare un partito tradizionale, recintando una porzione di Palazzo per offrirla al mercato dei consensi. No, Monti si presenta come la fredda qualità dell’ineluttabile, garbatamente superiore agli endorsement ricevuti e disadorna come le sale delle sue conferenze stampa. Durante il principato berlusconiano, Palazzo Chigi era un tripudio di angeli musicanti su bronzo dorato, busti in bassorilievo di scuola fiorentina quattrocentesca (celebre il Nerone della sala delle Galere), dipinti mitologici seicenteschi come il “Bacco e Arianna” di Nicolas Poussin. Dacché vi è subentrato Monti, nulla di quei fasti ha superato la notte in cui tutti i colori precipitano nell’indistinto. Monti parla alla nazione davanti a fondali sterili, asettici come una sala operatoria, neutri come le pareti di un tribunale, appena ingentiliti dal tricolore e dalle stelle europee ricamate sul blu. Nessuno spettroscopio rileverà mai nei sette punti del programma montiano alcunché di sognante: all’orizzonte non c’è alcun miracolo italiano, né liberista né poeticamente statocentrico; non c’è alcun baluginìo che trafigga il cuore dell’elettore per cattivarselo o frodarlo. Monti non teorizza il Führerprinzip, naturalmente, ma pratica l’intimidazione intellettuale e risulta persuasivo quando sposta il piano del conflitto dallo schema destra/sinistra a quello che contrappone gli ardenti difensori dell’arcaismo ai miti-modernizzatori (lui sta coi secondi, dopodiché ognuno faccia la sua scelta). Berlusconi è un seduttore interclassista e un combattente spettacolare, è l’usato insicuro che azzarda il suo ultimo (?) “Volo di notte” come il protagonista del romanzo di Antoine de Saint-Exupéry. Bon voyage.

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