Mistero charme

Perché Montezemolo ha fatto tanto per costruire la sua non candidatura?

Salvatore Merlo

“Sono sollevato, come se avessi fatto quattro figli in una sola volta. Una sensazione incredibile, mi sono sgravato di un peso che mi toglieva il sonno”. E’ agli amici che Luca Cordero di Montezemolo (LCdM) ha confessato, con queste esatte parole, appena qualche giorno fa, il sollievo che prova adesso all’idea di non doversi candidare alle elezioni. Quando glielo ha comunicato, alcuni giorni prima di farne parola con i collaboratori (delusi) della fondazione ItaliaFutura, il vecchio amico e socio Diego Della Valle gli ha dato una pacca sulle spalle e ha tirato pure lui un solidale sospiro di sollievo: “E’ meglio così, ci avrebbero messo poco a distruggerti”.

    “Sono sollevato, come se avessi fatto quattro figli in una sola volta. Una sensazione incredibile, mi sono sgravato di un peso che mi toglieva il sonno”. E’ agli amici che Luca Cordero di Montezemolo (LCdM) ha confessato, con queste esatte parole, appena qualche giorno fa, il sollievo che prova adesso all’idea di non doversi candidare alle elezioni. Quando glielo ha comunicato, alcuni giorni prima di farne parola con i collaboratori (delusi) della fondazione ItaliaFutura, il vecchio amico e socio Diego Della Valle gli ha dato una pacca sulle spalle e ha tirato pure lui un solidale sospiro di sollievo: “E’ meglio così, ci avrebbero messo poco a distruggerti”. Ma c’è evidentemente qualcosa che non torna, e non ha molto a che vedere con la condanna per l’abuso edilizio nella sua villa di Anacapri. Negli ultimi anni LCdM ha speso dei soldi, ha speso il suo nome, ha speso del tempo, ha messo in moto la sua non indifferente macchina di relazioni, ha costruito una squadra di professori intorno al think tank ItaliaFutura, ha fatto quello che gli anglosferici chiamano networking, ha organizzato una convention con Andrea Riccardi e ha pronunciato pure un bel discorso da leader (malgrado un fastidioso incidente con il gobbo invisibile da cui leggeva, che lo ha costretto a interrompersi all’improvviso, un po’ smarrito: “Uhm, potete passarmi il testo scritto?”). Insomma per anni Montezemolo ha fatto tutto ciò che è lecito immaginare debba fare un membro dell’establishment, per quanto incerto e soffice, che voglia preparare una sua entrée charmante in politica; ma alla fine, malgrado gli sforzi, e persino malgrado la presenza fisica del campione Mario Monti, l’uomo dell’establishment ha invece scelto di non esserci: “Metto la mia fondazione al servizio del professore”. Ma perché?

    La questione si fa interessante, misteriosa, qual è la ragione di tanto sollievo per non aver centrato un obiettivo così a lungo inseguito? “Diciamo che Montezemolo ha non pochi conflitti di interesse”, azzarda Cesare Geronzi, il banchiere che lo conosce bene e che di certo non lo ama. Già vittima di implacabili e contundenti sortite di Cesare Romiti sulla sua prima problematica uscita “forzata” dalla Fiat (“lo conosco, e proprio per questo non lo voterei mai”), il presidente della Ferrari è in effetti un imprenditore dagli interessi dei più ramificati. In estrema sintesi: la presidenza della Ferrari, la vicepresidenza di Unicredit, i fondi di investimento Charme e Charme2 (quelli, tra le altre cose, anche delle poltrone Frau), il mercato della produzione di scatole nere per automobili (che ha avuto un boom con le liberalizzazioni di Corrado Passera), e infine anche i treni Ntv: LCdM ha lasciato la presidenza, ma detiene ancora la nuda proprietà di circa un terzo delle holding che controllano la compagnia.

    In definitiva “avrebbe dovuto mollare tutto e ci avrebbe perso molto denaro”, dice Geronzi: tra i cinque e i sette milioni di euro all’anno soltanto dalla Ferrari. E d’altra parte è dal 2001 che Montezemolo tentenna, un po’ dentro la politica, un po’ fuori, blandito da Berlusconi, sempre a un passo dal fargli da ministro (il Cavaliere lo annunciò solennemente a “Porta a Porta”), e poi niente, sempre segnato dall’abilità (o soltanto dalla fortuna?) di non essersi mai fatto compromettere dal Cavaliere (“il posto di presidente del Consiglio è per il futuro a sua disposizione”), ma accompagnato pure, sempre, dal retropensiero che la sua riluttanza non fosse solo carattere, eccesso di cautela, né pignoleria né tantomeno un perfezionismo che d’altra parte non gli si conosce. Anche Veltroni, neo leader democratico, s’era fatto avanti con lusinghiere profferte che, per quanto diluite nelle caute risposte di un personaggio così desiderato, sapevano di appuntamenti da rinviare, prenotazioni per un futuro più roseo. Ma mai niente, fino ad allargare le braccia con un sorriso quasi ribaldo: “Ho la coda davanti alla porta. Se solo volessi…”.

    Adesso non si candida più, non vuole più: “Sono sollevato”. E Cesare Geronzi continua a decrittare, e spiegare: “C’è anche un’altra motivazione che lo porta a tirare adesso un sospiro di sollievo, per tacere della sua vanità offuscata dalla presenza di Monti. Quanti voti avrebbe preso la sua lista, la lista Montezemolo?”. Forse pochini. Dice un suo vecchio amico: “Ha trovato una perfetta exit strategy. E’ tutto tranne che uno sciocco, sa di essere un signore dell’alta borghesia, uno che organizza le riunioni della sua fondazione all’hotel Four Season. La politica non è per lui, lo hanno già inchiodato a battute come ‘I have a drink’, e al macchiettismo un po’ fru fru del ‘partito dei carini’”.

    Per quasi due anni, gli ultimi due anni, LCdM, cui le risorse economiche ovviamente non mancano, si è sottoposto a ogni genere di sondaggio, a cadenza settimanale si è consegnato a numerose analisi del sangue politico, a tac ideologiche, risonanze culturali, rilevazioni demoscopiche tra le più raffinate. Nessuno meglio di lui dunque può sapere che una sua lista, tra quella di Monti e quella di Pier Ferdinando Casini, in queste elezioni sarebbe arrivata soltanto terza, come sa perfettamente anche Berlusconi, altro danaroso committente di sondaggi, che lo ha corteggiato a lungo, che lo ha fatto testare decine di volte, e che a maggio dell’anno scorso ha pure accreditato volentieri la storiella di un sondaggio fantasma che attribuiva a Montezemolo addirittura il 24 per cento dei consensi (quando in realtà, secondo la quasi infallibile Alessandra Ghisleri, galleggiava intorno al 6 per cento). Insomma, per il presidente della Ferrari tutta la fatica e gli sforzi degli ultimi anni rischiavano di servire soltanto a fargli scoprire, alla fine, che si era trattato di un enorme sbaglio, che la popolarità non va confusa con il consenso, che insomma Lorenzo Cesa prende più voti di lui. Dunque meglio fare un passettino di lato: “La mia struttura è a disposizione di Monti”. Esserci, per non esserci. Tanto più se anche gli altri altri amici di Rcs, del patto di sindacato che possiede il Corriere della Sera, compreso il “quasi parente” Paolo Mieli (così lo chiama LCdM), ora dubitano di tutta l’operazione montiana.

    “Dentro la mia scrivania, chiusa in un cassetto, c’è una foto di Enzo Ferrari. Ogni tanto, quando non mi vede nessuno e ho bisogno di un consiglio, mi giro, apro il cassetto, prendo la foto e dico: ‘Ingegnere, che cosa devo fare?’”. Ma stavolta la decisione irrevocabile di LCdM non è dipesa dal cipiglio fotografico del fondatore della Ferrari, Montezemolo non si candiderà perché in tutta evidenza non gli conviene e poi forse anche perché, in fondo in fondo, tra tutti gli elettori italiani è lui il primo a non credere in se stesso né, forse, nel gruppo di stimatissimi intellettuali e professori che negli ultimi anni ha raccolto intorno alla fondazione ItaliaFutura e intorno all’idea – per lui ormai naufragata – di “scendere in campo”. Anche Berlusconi, ai bei tempi della sua impresa politica, aveva intorno a sé un pizzico della cultura accademica italiana, erano i Lucio Colletti, Saverio Vertone, Piero Melograni. Ordinari contro associati. “Sono sollevato, come se avessi fatto quattro figli”, un incubo, la sua candidatura, che si è dissolto nella nebbia del sonno, sarà uno sponsor defilato, e – come raccontano i suoi amici – “ora immagina il suo rapporto con Monti un po’ come quello che c’era tra l’Avvocato e Ugo La Malfa”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.