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Biografia politica di Giorgio Napolitano / 2

El gobierno del presidente

Sergio Soave

Nel 2011 ricorreva il centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale, cui Napolitano ha cercato, con esiti alterni, di dare il carattere di un’occasione di riflessione collettiva sull’incompiutezza e sul valore dell’esperienza unitaria e di una manifestazione popolare di attaccamento alla patria. Forse il carattere celebrativo dei dibattiti e dei discorsi pronunciati in quest’occasione ha portato a trascurare alcuni tra i molti aspetti problematici della costruzione unitaria.

Nel 2011 ricorreva il centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale, cui Napolitano ha cercato, con esiti alterni, di dare il carattere di un’occasione di riflessione collettiva sull’incompiutezza e sul valore dell’esperienza unitaria e di una manifestazione popolare di attaccamento alla patria. Forse il carattere celebrativo dei dibattiti e dei discorsi pronunciati in quest’occasione ha portato a trascurare alcuni tra i molti aspetti problematici della costruzione unitaria. Napolitano, per la verità, ha insistito su alcuni di questi aspetti, con riferimento soprattutto all’incompiutezza dell’unità nazionale dal punto di vista della coesione sociale e territoriale, con un’attenzione specifica alla questione meridionale. Meno approfondita è stata l’analisi dei punti irrisolti dell’assetto istituzionale, che meriterebbero forse una lettura meno legata alla quotidianità della contesa politica.
Tra gli aspetti critici che hanno caratterizzato l’intera vicenda unitaria nelle sue tre fasi principali, la monarchia costituzionale, il fascismo e la Repubblica democratica, ce n’è una, la dialettica di potere tra capo dello stato e capo del governo, che in nessuna delle tre fasi è stata definita in modo preciso e che rimanda all’attuale situazione. Napolitano ha accennato a questo tema quando ha osservato che la funzione presidenziale tende a espandersi quando il sistema politico mostra debolezze strutturali.
Questo dato istituzionale, la variabilità assai ampia dei reali poteri del capo dello stato che percorre tutta la storia unitaria, è stato senza dubbio uno degli elementi di riflessione di Napolitano quando si è trovato, contemporaneamente, a celebrare il centocinquantenario e ad affrontare un momento in cui proprio quell’elemento risultava cruciale.

Nella fase monarchica, basata su uno Statuto che aveva il carattere di una concessione regia, il ruolo di casa Savoia è stato centrale nella vita politica e istituzionale. L’interventismo politico e diplomatico di Vittorio Emanuele II, ormai largamente documentato, visti i risultati, soprattutto nell’ottenere l’adesione del movimento garibaldino alla causa monarchica, storicamente giustificato, ha portato alla nascita e alla permanenza di un “partito di corte” con la pervicace tendenza a sovrapporsi alla dialettica parlamentare. La nomina di molti presidenti del Consiglio, generalmente militari (ma anche esponenti politici della sinistra liberale come Urbano Rattazzi), è avvenuta indipendentemente dalle indicazioni dei gruppi politici, che peraltro, soprattutto nell’area liberale maggioritaria non hanno mai assunto il carattere di veri e propri partiti politici. Fu l’eccesso di potere del capo dello stato a impedire la formazione di un partito moderato e di un partito progressista dai contorni delineati? Oppure fu questa caratteristica della classe dirigente italiana a determinare il ruolo prevalente della monarchia sulle rappresentanze parlamentari? Antonio Gramsci, il pensatore italiano che più profondamente ha influito nella formazione intellettuale dei comunisti e quindi anche di Napolitano, sostenne che era la massoneria il vero partito della borghesia italiana, e lo disse nel suo unico intervento parlamentare, per opporsi al decreto di scioglimento delle logge presentato dal governo di Benito Mussolini. Si tratta di una lettura un po’ schematica, che però dà conto della condizione particolare della classe dirigente liberale, stretta tra l’autorità invasiva della monarchia e la realtà sociale, ancora prevalentemente contadina, di fatto estranea allo stato, anche per la rottura tra trono e altare che aveva caratterizzato il Risorgimento. L’incapacità del liberalismo di competere con i movimenti politici organizzati con base di massa, socialisti e cattolici, ne determinò il fallimento e il cedimento al fascismo. Paradossalmente fu il re che meno di tutti si appoggiò a un partito di corte, Vittorio Emanuele III, a consentire la fase di conquista del potere da parte di Mussolini, come a dare un contributo determinante a quella della sua caduta dopo il 25 luglio del 1943. Giovanni Giolitti, anche approfittando del minore interventismo del re, cercò di ampliare la base sociale dello stato, e allargò la platea elettorale con il suffragio elettorale universale (maschile). Per realizzare il suo programma esercitò un’influenza molto incisiva sulla rappresentanza nazionale, nel tentativo di superare la logica delle “consorterie” e per questo fu accusato di aver instaurato, grazie all’attivismo elettorale delle prefetture, quella che Gaetano Salvemini definì una “dittatura parlamentare”. Sui temi decisivi della politica estera, però, anche Giolitti si trovò stretto nella morsa di un’iniziativa bellicista appoggiata dal Quirinale e di una repulsa pacifista ma anti istituzionale dei socialisti e, più tiepidamente, dei cattolici. L’entrata in guerra, decisa segretamente dal governo e dal re contro l’opinione della maggioranza parlamentare giolittiana, segnò il fallimento di quell’esperienza.
Il rapporto tra capo dello stato e governo, che non era mai stato definito in modo soddisfacente nel sistema parlamentare, trovò una sistemazione apparentemente più stabile nel periodo della dittatura fascista, in cui la diarchia tra re e duce appariva nettamente squilibrata a favore del secondo. Il potere spettava al governo, ormai dipendente solo dalla volontà di Mussolini e senza alcun ruolo di un Parlamento, ridotto alla caricatura della Camera dei fasci e delle corporazioni. Al re spettava un ruolo di rappresentanza e la firma dei decreti. Tuttavia alcuni aspetti apparentemente solo formali, a cominciare dal giuramento di fedeltà al re delle Forze armate, nel momento della crisi nazionale si rivelarono decisivi.

L’esperienza fascista ha lasciato tracce importanti nella elaborazione della Carta costituzionale. I costituenti non volevano attribuire al capo del governo, ribattezzato presidente del Consiglio dei ministri, poteri considerati eccessivi, che richiamavano memorie del recente passato, e lo sottoposero a una duplice tutela, dall’alto del presidente della Repubblica, dal basso del Parlamento e soprattutto dei partiti. La novità vera della Repubblica sono appunto i partiti di massa organizzati, e dalla loro dialettica concreta dipende anche il ruolo del capo dello stato e la sua relazione con i governi.
I presidenti della Repubblica durano in carica sette anni, i governi della Prima Repubblica hanno avuto una durata media di un solo anno.
Mentre è stata largamente esaminata l’influenza esercitata sul compromesso costituzionale dalla preoccupazione di non ripetere errori che avevano portato al collasso della democrazia nel 1922, non è stata analizzata quella determinata dalla particolare situazione politica che si presentò durante i lavori della Costituente e il ruolo che vi giocò Enrico De Nicola, capo provvisorio dello stato nel 1947, quando Alcide De Gasperi decise di escludere comunisti e socialisti dall’esecutivo e quindi si dimise da presidente del Consiglio del governo a base unitaria. De Nicola, dopo qualche tentativo di nominare un esponente della vecchia nomenclatura liberale pre-fascista, finì col conferire l’incarico ancora al leader democristiano, tra le proteste, istituzionalmente non infondate, della sinistra cacciata all’opposizione.Va ricordato che la Costituzione era ancora in via di elaborazione, l’Assemblea costituente non aveva il potere legislativo, quindi la legittimità del governo, che fino ad allora si era basata sull’unità antifascista, poggiava ora esclusivamente sull’investitura presidenziale e su una fiducia ristretta ottenuta anche con consensi estranei al fronte repubblicano, come accadeva nella democrazia pre-fascista.
Una volta che si resero conto che non avrebbero mantenuto un diritto di veto sulla nomina del presidente del Consiglio, le sinistre puntarono a ridurne i poteri in modo da rendere più facile la sua caduta, trovando qualche sintonia anche nel settore democristiano anti degasperiano, che era anche quello più clericale. Dopo la squillante vittoria di De Gasperi nelle elezioni del 1948, si rafforzò il suo ruolo personale come presidente del Consiglio, ma non quello istituzionale della carica. Il nuovo capo dello stato, Luigi Einaudi, invece rafforzò le prerogative della sua, sia dando indicazioni piuttosto stringenti sulla nomina dei ministri economici, sia usando il criterio della copertura finanziaria per intervenire di fatto sul merito di alcuni provvedimenti rilevanti. Quando poi, nel 1953, non scattò la legge maggioritaria, Einaudi diede vita al primo “governo del presidente” della storia repubblicana, nominando Giuseppe Pella, il cui governo era giudicato soltanto “amico” dai leader democristiani. In questo modo, quasi casualmente, si inaugurò una prassi che differenziò poi per decenni la democrazia italiana dalle altre grandi democrazie, dove normalmente è il leader del partito maggioritario a guidare il governo. In Italia, invece, questo principio, venuto a cadere nella situazione particolare del 1953, non fu più ristabilito. Amintore Fanfani, diventato segretario della Dc, cercò di restaurarlo in più occasioni, ma per impedirglielo si formò una corrente maggioritaria nel suo partito, quella dorotea, che finì per esercitare per decenni il ruolo di baricentro della politica italiana.

Anche la carica di presidente della Repubblica fu esclusa di fatto per il leader del partito di maggioranza e impedita da varie manovre anche per i dirigenti di primo piano delle correnti democristiane. Né Fanfani né Aldo Moro, Giulio Andreotti o Arnaldo Forlani riuscirono mai a vincere la battaglia per il Quirinale. L’unico esponente di primo piano della Dc che vi riuscì, il leader dei dorotei Antonio Segni, fu sospettato di voler eccedere nell’esercitare una funzione impropria di indirizzo politico, il che forse non accadde, ma avrebbe potuto accadere grazie al prestigio di cui godeva all’interno del suo partito in un fase cruciale dell’avvio dell’alleanza di centrosinistra.
Presidenti del Consiglio e della Repubblica relativamente deboli erano peraltro funzionali al simmetrico sovradimensionamento del potere dei partiti e delle loro correnti interne. L’andamento di una legislatura dipendeva più che dagli esiti elettorali, peraltro contenuti in scostamenti minimi, da quello dei congressi democristiani e, in seguito, ma dopo che il terremoto elettorale del 1976 ebbe rimesso in gioco il Pci, anche da quelli socialisti.
In tutta questa lunga fase di vita repubblicana la questione del rapporto tra Quirinale e governi non si pose mai in modo drammatico, anche se il comportamento di Giovanni Gronchi, dalla richiesta, dapprima rifiutata, di dimissioni di Mario Scelba alla scelta di rinviare Fernando Tambroni alle Camere dopo le dimissioni, come il comportamento di Antonio Segni durante la prima crisi del centrosinistra avevano già messo quel rapporto sotto tensione. Verrà poi la fase della tensione più evidente, inaugurata con la richiesta comunista di dimissioni di Giovanni Leone, seguita dal protagonismo irrituale di Sandro Pertini, fino al rifiuto di Giulio Andreotti di controfirmare il messaggio di Francesco Cossiga alle Camere sulle riforme istituzionali. Giorgio Napolitano, che visse le esperienze di quella prima fase da parlamentare e dirigente comunista rilevante, non colse questi primi segnali di scollamento istituzionale. Di Gronchi ricorda il discorso di insediamento, che considera di apertura di una nuova stagione politica che tendenzialmente chiudeva con il periodo del centrismo “militarizzato”, ma non accenna mai alle sue responsabilità, oggettivamente pesanti nella svolta di segno opposto rappresentata dal governo Tambroni.

Assai più severo è invece il giudizio di Napolitano su Antonio Segni e le sue “torbide manovre” volte a intimidire Pietro Nenni. In ambedue i casi, comunque, è del tutto assente una riflessione sugli aspetti istituzionali di crisi che mettevano in luce uno squilibrio che negava l’assunto, che Napolitano ha sempre difeso e difende tutt’ora, dell’efficacia democratica del sistema di bilanciamento dei poteri definito nella Costituzione repubblicana, anche se nei fatti ne ha dato egli stesso, nell’ultimissima fase della sua presidenza, un’interpretazione creativa.
(2. continua)

La prima puntata è stata pubblicata il 2 gennaio 2013 ed è disponibile su www.ilfoglio.it