Capricci storici
"Only connect”, soprattutto connettere, cercare nessi e nient’altro: questa parola d’ordine, o precetto, o sfida con cui deve misurarsi lo scrittore di romanzi secondo Edward M. Forster, l’autore di “Casa Howard”, vale anche per il più modesto lettore di giornali. Tale personalmente sono, in mancanza (o per rifiuto) di fonti informative socialmente privilegiate o tecnicamente innovate. I giornali sono diventati un paradosso. Una volta sembravano il simbolo dell’effimero, oggi si leggono come testi tradizionali. Stampati su carta, non ignari di ortografia, punteggiatura e sintassi, scritti a volte con evidente passione letteraria, io faccio fatica a liberarmene.
"Only connect”, soprattutto connettere, cercare nessi e nient’altro: questa parola d’ordine, o precetto, o sfida con cui deve misurarsi lo scrittore di romanzi secondo Edward M. Forster, l’autore di “Casa Howard”, vale anche per il più modesto lettore di giornali. Tale personalmente sono, in mancanza (o per rifiuto) di fonti informative socialmente privilegiate o tecnicamente innovate.
I giornali sono diventati un paradosso. Una volta sembravano il simbolo dell’effimero, oggi si leggono come testi tradizionali. Stampati su carta, non ignari di ortografia, punteggiatura e sintassi, scritti a volte con evidente passione letteraria, io faccio fatica a liberarmene. Li tengo lì per giorni o settimane, buttarli via mi sembra uno spreco inconcepibile e criminoso. Mi illudo ancora che, se non oggi, domani, troverò il modo di leggere gli articoli e le notizie più interessanti. Sì: carta stampata da buttare che non vorrei buttare.
Proprio questa ansia antispreco ha provocato in me una connessione mentale di vari articoli sul tema del leggere carta stampata, dell’inventare avendo davanti un foglio di carta, dello scrivere a mano, come mi succede da quando le macchine da scrivere non esistono più e i computer misteriosamente mi respingono.
Se i frenetici ingegneri e imprenditori di Silicon Valley hanno deciso di cambiare la nostra vita ogni sei mesi e se per quanto mi riguarda mi tengo invece le mie abitudini, devo prendere atto di essere diventato un esemplare antropologico in via di rapida estinzione, più vicino a uno scriba, a un amanuense, a un homme de lettres sette-otto-novecentesco che a un giovane nato negli ultimi vent’anni. Che delizia! Senza disporre di una miracolosa macchina del tempo, semplicemente restando come ero a vent’anni, il presente delle nuove tecnologie di lettura e scrittura mi ha proiettato indietro di decenni e secoli.
Leggendo però nei giornali dell’ultimo mese qualche articolo su questo tema, sono stato informato di non essere solo. Forse si sta scoprendo per l’ennesima volta che la storia non è un processo a senso unico del tutto privo di sviluppi laterali secondari, di reazioni inerziali, di capricci illogici e antieconomici o di consapevoli passi indietro. Da tempo avevo sospettato di vivere (come sempre è successo) in un mondo fatto di monadi, di microcosmi non comunicanti, di dimensioni parallele. In un articolo del neuroscienziato Oliver Sacks uscito su Repubblica il 27 dicembre, leggo queste parole: “Io non voglio un Kindle, o un Nook, o un iPad. (…) Voglio un libro vero, fatto di carta stampata: un libro che abbia un peso, che odori di libro, come sono stati i libri negli ultimi cinque secoli e mezzo”. E poi: “Leggere è un compito enormemente complesso”, “si legge con i propri tempi”: “Non dobbiamo consentire la scomparsa di nessuna forma di libro, perché siamo tutti individui, con esigenze e preferenze fortemente individualizzate: preferenze radicate nei nostri cervelli a ogni livello, con i nostri modelli neurali e le nostre reti neurali individuali che creano un dialogo profondamente personale fra autore e lettore”.
Se ben ricordo, “homo sum, humani nihil a me alienum puto”, come si imparava una volta al liceo. L’umano è sia universale che singolare. E’ bisogno di socialità, è socializzazione inevitabile, è isolamento necessario o desiderato, è forma, misura e ritmo del passaggio da una cosa all’altra. Se leggo sul Sole 24 ore un articolo di Marco Belpoliti e Bertrand Niessen intitolato “Potenza culturale della rete”, sento odore di trionfalismo implicitamente e inutilmente pubblicitario. La potenza non ha bisogno di propagandisti. Se è potenza si impone da sé e di fatto ognuno ne ha già preso atto. Schierarsi con ciò che si impone è una forma vacua o perversa di moralismo. Ma si vogliono prendere spesso due piccioni e mostrare che il futuro è tanto bello perché restaura il passato più remoto: per esempio quello dell’oralità (così “social”) contro la scrittura (così antipaticamente solitaria e silenziosa). Ci è stato insegnato negli ultimi tempi, che il lettore davanti al testo stampato era passivo, mentre il lettore davanti a uno schermo è interattivo. Gli umanisti di cinque secoli fa, i vecchi filologi e i devoti ermeneuti sarebbero dunque dei poveri succubi della parola scritta, letta come testo stabile. Il tono di certi articoli sembra neutro, ma è sempre così promettente, rassicurante e moderatamente profetico. La cultura digitale-multimediale connetterà e già connette il reale e il virtuale (bel colpo!). La socialità perciò si starebbe espandendo e moltiplicando per via tecnologica. Non si fa che comunicare mettendo in contatto “individui, collettività e processi”. Ottimo.
A che scopo? E’ necessario semplicemente perché così è? O è anche bello, progressivo, moralmente giusto, utile, divertente? Lo è? Deve esserlo per tutti? Chiedete una risposta, un parere postumo, dall’oltretomba, o sulla base delle loro opere scritte, per esempio a Gadda, a Montale. Provate, se preferite, con Eliot e Orwell. Immaginate il parere di Céline, di Beckett. Andate a intervistare il dottor Franz Kafka davanti alla sua tomba di Vinohrady a Praga. Se si deve connettere e restare connessi, questi esperimenti medianico-letterari di connessione meriterebbero di essere fatti. Da più di un secolo, il futuro è luminoso, la sua luce è abbagliante. Stando alle parole di Oliver Sacks, potrebbe però annunciarsi un lungo conflitto, una guerra dei trenta o cent’anni fra neuroscienze, terapie psicomentali, scienze dell’educazione, scienze della comunicazione e nuove tecnologie. Come disse il beato Umberto Eco: “Nervi saldi, staremo a vedere”.
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