Dall'Ohio al Pirellone
Sembrava l’Ohio, invece è il Varesotto. Sembrava l’Ohio, perché ci sono le elezioni e a qualcuno il paragone era venuto subito in mente: la Lombardia sarà l’Ohio d’Italia, lo swing state, la regione ballerina, chi vincerà qui le elezioni per il Senato avrà vinto la partita anche a Roma. Perché la Lombardia elegge 49 senatori, e con i 24 del Veneto e i 25 della Sicilia costituisce il pacchetto di mischia determinante per costruire la maggioranza della Camera alta – che Senato delle regioni ancora non è, e probabilmente non sarà mai, ma intanto già si comporta come tale in base a una cervellotica legge elettorale.
Leggi Casini: "Tra Pdl e Lega è l'accordo della disperazione"
Sembrava l’Ohio, invece è il Varesotto. Sembrava l’Ohio, perché ci sono le elezioni e a qualcuno il paragone era venuto subito in mente: la Lombardia sarà l’Ohio d’Italia, lo swing state, la regione ballerina, chi vincerà qui le elezioni per il Senato avrà vinto la partita anche a Roma. Perché la Lombardia elegge 49 senatori, e con i 24 del Veneto e i 25 della Sicilia costituisce il pacchetto di mischia determinante per costruire la maggioranza della Camera alta – che Senato delle regioni ancora non è, e probabilmente non sarà mai, ma intanto già si comporta come tale in base a una cervellotica legge elettorale. Così la Lombardia, dopo i noti rovesci politici del centrodestra, è diventata per la sinistra “uno stato contendibile”, per dirla col professor Roberto D’Alimonte, politologo della Luiss che insegna Sistemi politici italiani, disciplina crossover tra l’enigmistica e i tarocchi. Come accade (o meglio avrebbe potuto accadere) nel voto per le presidenziali americane, uno spostamento significativo dell’elettorato in un territorio tradizionalmente stabile potrebbe causare un piccolo cataclisma a livello nazionale.
Poi, dalle pianure del nord americano, si è tornati ai più consueti panorami delle valli lombarde. Perché nella notte tra l’Epifania e il Natale ortodosso è arrivato il Grand Bargain, il grande accordo tra il Cavaliere e la Lega di Bobo Maroni, inseguito per settimane: nel senso letterale che per settimane Silvio Berlusconi ha inseguito i leghisti che a tutti costi, e alla disperata, cercavano di non farsi acciuffare. Ora è deciso, Roberto Maroni, che già da un mese campeggia in effigie su enormi manifesti “Maroni presidente - Lombardia in testa” non sarà soltanto il candidato della Lega ma anche del Pdl, in una riedizione non si sa bene quanto credibile (credibile per gli elettori) della vecchia macchina da guerra che quattro anni fa aveva stravinto in Lombardia e in tutt’Italia. “Un accordo molto soddisfacente”, ha detto ieri Maroni, cercando di rassicurare prima di tutto i suoi, perché una “corsa solitaria sarebbe stata un’inevitabile sconfitta” (e sarebbe stata, lui non lo dice, anche la sua personale fine come segretario della Lega). “L’inciucio della disperazione”, ha commentato invece Maurizio Martina, il capo del Pd lombardo, nascondendo dietro il sarcasmo ostentato qualche incipiente preoccupazione.
Un accordo soddisfacente e un quadro più chiaro, anche in proiezione nazionale? Mica tanto, a ben vedere. Sotto il bel cielo di Lombardia, un tempo terra benedetta del centrodestra, regna una confusione politica in cui le ipotesi si sovrappongono, e il risultato non è certo per nessuno. Tanto che gli staff dei partiti si sono già buttati a rifare da capo i sondaggi, per capire quanto possa valere – con proiezione nazionale, che poi è quello che conta, soprattutto per il Pdl e il Pd – la ritrovata alleanza.
Di certo, al primo colpo d’occhio, c’è che Berlusconi l’ha ottenuta a caro prezzo, ovvero immolando se stesso in quanto candidato premier deciso a sfidare Bersani e Monti – ipotesi non si sa di quanto costrutto politico, ma è quella su cui da un mese il Cavaliere di ritorno dal Kenya ha deciso di scommettere –, cioè assicurando ai leghisti che l’eventuale premier non sarà lui. Anche se, poi, Berlusconi si è lasciato andare a un poco convinto (e più che altro poco razionale, giunti a questa data) “sarà Alfano”, mentre un Maroni visibilmente nervoso ha replicato “per noi è Tremonti”. Al segretario, si capiva, premeva di più poter annunciare ai suoi che nell’accordo è contenuto l’appoggio del Pdl al progetto della macroregione. Inoltre, come spiegava ieri Matteo Salvini, idolo dei militanti, dunque quello incaricato di lisciare il pelo ai dubbiosi, l’intesa raggiunta “prevede l’impegno scritto a trattenere il 75 per cento delle tasse sui territori che le producono”. Due temi politici che difficilmente Berlusconi potrà poi sostenere, impegnato com’è a tessere complicate eppure decisive alleanze, di tutt’altro segno, anche al sud.
Infine, la rinuncia – che ancora e come sempre non si sa se prendere per definitiva, ipotetica, o solo strategica e momentanea – a candidarsi come premier della coalizione getta un altro po’ di instabilità nelle prospettive politiche del centrodestra. Pare di capire che, sfruttando le pieghe più nascoste della legge elettorale, per venire incontro all’esigenza di Maroni di non sostenere “Berlusconi candidato premier” (sarebbe come dire “ehi ragazzi, negli ultimi due anni abbiamo scherzato, e per di più abbiamo defenestrato inutilmente il nostro amato Capo, costringendolo pure a litigare col suo amico Silvio) la rediviva coalizione Pdl-Lega potrebbe rinunciare ad avere un nome di candidato premier scritto sulla scheda (a meno che Berlusconi voglia ingoiarsi anche il rospo di metterci Giulio Tremonti) e indicare solo un generico “capo della coalizione”. Tanto, è il ragionamento terra-terra, le elezioni non le vinciamo noi. Ma, sforzandosi di volare solo un pochetto più in alto, è evidente che presentarsi in coalizione senza neanche saper dire agli elettori per chi dovrebbero votare, è una tecnica parente del suicidio.
Fatto sta, però, che l’accordo della Befana ha rimesso in movimento i sondaggi, almeno a livello regionale. E la cosa provoca reazioni a catena nella già scarsamente decifrabile nebulosa di Lombardia. Fino a due giorni fa il Pd veniva accreditato dai vari sondaggi al 35 per cento, e la sinistra intera attorno al 40. Da quando Berlusconi è tornato in pista il Pdl viene segnalato in risalita. E se Maroni, in competizione solitaria contro Umberto Ambrosoli, era dato dai più ottimisti sotto di soli pochi punti (35 contro 38 per cento) ora, insieme al Pdl, in Lombardia il testa a testa sembrerebbe assicurato. E per un centrodestra che solo un paio di mesi fa, al momento della defenestrazione di Formigoni e delle ramazze leghiste in via Bellerio, sembrava morto, è già un miracolo politico. Sempre ammesso, ovviamente, che non abbiano ragione i leghisti che si sono opposti fino all’ultimo all’accordo (cfr. altro articolo in questa pagina), e che invece esibiscono sondaggi in cui un Maroni sostenuto da Berlusconi perderebbe anche una parte dei voti dei suoi.
Insomma “l’inciucio della disperazione”. Ma è davvero così? La nuova situazione nel centrodestra destabilizza anche la sinistra, ma ancora è presto per capire se la danneggia pure. Fino a qualche settimana fa, per Pier Luigi Bersani e la sua noiosa macchina da guerra lombarda sembrava tutto chiaro. In quarant’anni non hanno mai vinto in regione, da venti rosicano dietro a Formigoni-Bossi-Berlusconi, così quando tra camicie a fiori, serate eleganti in villa e cerchi magici nelle valli l’inespugnabile regno del nord ha iniziato a venir giù a pezzi – e di converso le armate arancioni della sinistra ad espugnare province e città accerchiando la capitale come i khmer rossi di Pol Pot, non gli sembrava vero. Tre mesi fa, quando Formigoni decise di buttarsi dal Grattacielo, erano giù sotto in piazza che cantavano “molla la sedia” e altri cori grilleschi. Sembrava già fatta. Gli uomini di Bersani hanno fatto le primarie, le hanno (stranamente) vinte, poi altre primarie, e le hanno rivinte. Fino a quando si sono accorti di non avere un vero candidato da corsa, un Pisapia insomma capace di mettere d’accordo tutti e convincere gli indecisi. E si sono dovuti accordare con l’avvocato Ambrosoli, gentilmente offerto dal cda della Rcs-Corriere della Sera. Un’ottima persona, che molto probabilmente vincerà, ma che intanto nei sondaggi resta lì, più o meno inchiodato agli stessi voti con cui l’altra volta aveva perso, e di brutto, Filippo Penati. E cercare di rosicchiare altro consenso popolare (un tempo si sarebbe detto “operaio”) tra le valli e i distretti industriali puntando su avvocati di Milano centro e su vicedirettori del Corriere della Sera (la quota Bazoli del Pd lombardo, questo giro, è incredibilmente elevata) non sarà facile. Soprattutto se Ambrosoli, come sembra, non incontra un travolgente consenso dalle parti di Sel e Cgil, che invece furono essenziali per la vittoria di Giuliano Pisapia.
E’ stato allora che Bersani ha iniziato a capire, forse a temere: se vuoi vincere a Roma tocca prendere il Pirellone, e prenderlo bene. Perché “l’effetto di trascinamento” del voto locale su quello nazionale, come spiega la signora dei sondaggi Alessandra Ghisleri, può contare qualche punto percentuale. E dunque qualche laticlavio a Palazzo Madama. E’ allora che è venuta fuori la storia dello swing state. Un recente report realizzato non da un istituto demoscopito, ma dalla banca Barclays analizza le possibili variabili che potrebbero interessare il prossimo Senato in base al voto lombardo. In sostanza, se la sinistra vince in tutte le regioni tranne che nella ricca (dei senatori) Lombardia, ottiene comunque una maggioranza risicata (165 seggi, maggioranza di 7 voti); se perde invece in Lombardia e in un’altra regione chiave (Veneto e Sicilia, che sono pure “stati ballerini”) si ritrova senza maggioranza al Senato.
Ma un effetto ancor più devastante, l’accordo della Befana rischia di produrlo sul cosiddetto centro montiano, l’area rappresentata in questa tornata dall’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini, la cui corsa era nata solitaria in novembre, e che col mutare del quadro politico sembrava destinata, fino a ieri, ad assumere un senso più strutturato. Era stato Roberto Formigoni, nei goirni dell’ira funesta per essere stato scaricato dalla Lega, da mezzo Pdl e pura da tanti fratelli e amici già il 20 ottobre che aveva inizia a twittare: “In Lombardia una alleanza è stata spezzata per il tradimento della Lega. Non possiamo permettere che dopo aver tradito, la Lega pretenda di indicare il candidato del centrodestra alla guida della regione. Noi vogliamo che il nostro candidato sia Gabriele Albertini”. Adesso, a cose fatte, il suo amico Maurizio Lupi, ma si sa che ormai Cl ha chiamato il liberi tutti in politica, dice che dare la Lombardia alla Lega “è un sacrificio, ma bisogna avere a cuore i cittadini”. E così lo stesso Formigoni, dopo aver tenuto il punto contro tutto e tutti (soprattutto contro Berlusconi) ora non si sa bene cosa farà, ma sembra escluso un suo impegno (lista) a fianco di Albertini in chiave montiana.
Eppure, secondo molti era proprio la candidatura di Albertini ad avere, se non chance di vittoria, quantomeno il pregio di una visione coerente e la possibilità quella di riaggregare la famosa area riformista-moderata, da sempre maggioritaria nella regione-locomotiva italiana, nel momento del tracollo del berlusco-leghismo. Ma a quel punto, bisogna dire, accanto alle questioni politiche hanno iniziato a pesare anche quelle caratteriali. Albertini, della Lega non vuole nemmeno sentire parlare. Formigoni (almeno fino a ieri) nemmeno. Berlusconi, invece, ad Albertini governatore non ci ha mai creduto. E ha sempre puntato invece sull’idea (due mesi fa folle solo a pensarla) di ricucire con la Lega. Una poltrona per due, anzi per tre, perché per quasi due mesi la possibilità che il Pdl si presentasse con un proprio candidato al Pirellone (Bersani godeva come un riccio solo al pensiero) è stata sul confine della realtà. E a una settimana dalla presentazione delle liste, il croupier era ancora lì che smazzava le carte. Fatto sta che in Lombardia, secondo tutti i sondaggi, il popolo del centrodestra a poche settimane dal voto è un po’ disorientato. E resta da capire se il candidato “di coalizione” Maroni fugherà i molti dubbi disillusi di un elettorato che alle scorse amministrative ha deciso di punire in massa il centrodestra.
Dall’altra parte, la carta di Albertini si chiama Mario Monti. L’ex sindaco finora ha stentato a decollare oltre il 10-12 per cento. Poi è successo un fatto nuovo. La settimana scorsa il professore gli ha donato il suo endorsement: “Come cittadino lombardo e milanese, spogliandomi adesso dalle mie temporanee altre caratteristiche, credo che vedrei bene Gabriele Albertini… Lo conosco da molto tempo e riconosco in lui una notevole capacità nel gestire in modo concreto i problemi reali. D’un tratto, il progetto, razionale ma circoscritto che si stava costruendo attorno ad Albertini ha assunto una prospettiva più ampia, nazionale. Anzi europea. Perché Albertini, in tandem con il suo collega europarlamentare Mario Mauro, ha provato a giocarsi la carta del Partito popolare europeo: usare la porta della Lombardia e la credibilità personale dell’ex “amministratore di condominio” Albertini per costituire un’area proiettata nella galassia Monti. Il suo staff si era appena rimesso a lavorare sui nuovi sondaggi post endorsement del professore. Ed è arrivata la notizia dell’accordo della Befana. Tutto da rifare. E intanto, sopra il centrodestra di Lombardia, resta una nebbia fitta, da Bassa padana. Altro che Ohio.
Leggi Casini: "Tra Pdl e Lega è l'accordo della disperazione"
Il Foglio sportivo - in corpore sano