Disastro Celeste

Formigoni, l'incompiuto di Lombardia arrivato all'ultimo dietrofront

Salvatore Merlo

“Ha calato le braghe, e per cosa? Per un posto al Senato, dove sparirà tra gli altri peones”. Il giudizio è così violento perché è quello di un cuore infranto, di un amico tradito: sono i vertici di Comunione e Liberazione, in Lombardia, a chiudere così, con queste parole, la carriera ventennale di Roberto Formigoni. Ed è un’agonia mesta. Il presidente della regione più ricca d’Italia ha deciso, o meglio si è piegato, manca poco all’annuncio ufficiale: non sosterrà Gabriele Albertini, candidato anche di Mario Monti, nella sua corsa al Pirellone contro la Lega, malgrado le promesse e le dichiarazioni, malgrado l’investitura e l’investimento.

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    “Ha calato le braghe, e per cosa? Per un posto al Senato, dove sparirà tra gli altri peones”. Il giudizio è così violento perché è quello di un cuore infranto, di un amico tradito: sono i vertici di Comunione e Liberazione, in Lombardia, a chiudere così, con queste parole, la carriera ventennale di Roberto Formigoni. Ed è un’agonia mesta. Il presidente della regione più ricca d’Italia ha deciso, o meglio si è piegato, manca poco all’annuncio ufficiale: non sosterrà Gabriele Albertini, candidato anche di Mario Monti, nella sua corsa al Pirellone contro la Lega, malgrado le promesse e le dichiarazioni, malgrado l’investitura e l’investimento. Dopo vent’anni, Formigoni ha dunque chinato definitivamente la testa di fronte a Silvio Berlusconi, il suo capo, l’uomo che lo ha incatenato alla regione per quasi due decenni frustrandone ogni velleità nazionale (“farà il governatore a vita”, ha sempre sorriso il Cavaliere). Berlusconi adesso gli ha strappato pure la corona dalla testa per porgerla al suo nemico, a Roberto Maroni, prossimo candidato unico alla regione, il nuovo leader della Lega che a ottobre ha disarcionato Formigoni portando la Lombardia alle elezioni anticipate; il successore di Umberto Bossi che, nel teatro della crudeltà lombarda, è persino autorizzato dal Cavaliere allo sberleffo e al dileggio del Celeste sbiadito.

    “Così finisce nell’ignominia – dicono i ciellini – E’ come se Formigoni avesse certificato che il modello lombardo è quel pozzo oscuro di corruzione e di sprechi di cui parlano i magistrati”. Molti, in una Cl sfilacciata e pronta per la prima volta alla libertà di coscienza elettorale, sperano che il governatore cambi idea, che si ribelli al Cavaliere, che sostenga Albertini difendendo così anche la sua storia, e che possa fare tutto ciò – un sussulto dignitoso – malgrado sia ormai certo di non avere alcuna contropartita da Monti (il professore non lo vuole nelle sue liste). Ma Formigoni ha deciso, e i maligni parlano di scelta coatta, ossimoro che svela la parola “ricattuccio”, termine che fa capolino qua e là tra i sussurri malevoli perché – dicono – “potrebbe sempre aver bisogno di quel che resta dell’immunità parlamentare”. E solo il Cav. può offrirgli un seggio.

    Inseguito da voci insistenti di nuove inchieste della magistratura di Milano, di cui si chiacchiera molto nel Pdl mezzo decomposto, Formigoni ha dunque mollato la presa, ha sventolato bandiera bianca: appena sei mesi fa era ancora un nome di prestigio, pronto alla corsa per la successione al Cavaliere, lottava per le primarie e proponeva – spalleggiato da Gianni Alemanno – un ticket di potere, tra lui e Angelino Alfano. Adesso più niente, Formigoni rimarrà per sempre una spettacolare promessa mai mantenuta. Per tre volte si è autocandidato ministro degli Esteri, ha cercato fortissimamente Roma e il proscenio nazionale, e per tre volte in pubblico – e altre cento in privato – Berlusconi lo ha respinto nella fortezza lombarda dove lui aveva ormai vinto tutte le elezioni, conquistato tutti gli spazi, scalato tutte le vette fino a lasciare a fianco del Pirellone un grattacielo ancora più alto, quella nuova sede della regione che i milanesi chiamano “Formigone”, simbolo di un governo che è stato forte, un potere quasi incontrastato. Con la resa a Maroni, abbandonato pure Albertini, dopo gli scandali e le incursioni giudiziarie, del “Formigone” rimane solo terra di conquista per la Lega (o, chissà, per il Pd). Intanto il governatore tace, “sto riflettendo”. Ed è una ben triste agonia politica e personale quella del Celeste che sfuma incompiuto, lui che si paragona a san Sebastiano (“scagliate pure le vostre frecce”), lui che non ha l’aria del gaudente mascalzone, che non appartiene all’antropologia crapulona dei Fiorito, ma che al contrario soffre e si offre al flagello (giudiziario e politico) perché, come i mistici medievali, pensa di meritare un giorno il sollievo del paradiso.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.