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Biografia politica di Giorgio Napolitano / 4

Italia patria europea

Sergio Soave

Come abbiamo già ricordato, Giorgio Napolitano ha, ancora recentemente, invitato i principali partiti italiani ad assumere una configurazione compatibile con le grandi famiglie politiche europee, anche allo scopo di contrastare la deriva “populista” che produce pulsioni antieuropee. E’ il Leitmotiv del montismo cresciuto all’ombra del Quirinale e della crisi.

Come abbiamo già ricordato, Giorgio Napolitano ha, ancora recentemente, invitato i principali partiti italiani ad assumere una configurazione compatibile con le grandi famiglie politiche europee, anche allo scopo di contrastare la deriva “populista” che produce pulsioni antieuropee. E’ il Leitmotiv del montismo cresciuto all’ombra del Quirinale e della crisi.
In questo appello, che fotografa una situazione di effettivo scollamento del sistema politico italiano da quello europeo, probabilmente si può leggere anche il rammarico personale del presidente per non essere riuscito a condurre a termine la sua annosa battaglia per trasformare il Pci in un partito socialdemocratico moderno. Quell’obiettivo, a lungo contrastato da “sinistra”, sembrava raggiunto quando il Pds entrò formalmente nell’Internazionale socialista e nel Partito socialista europeo, ma fu poi annullato con la costituzione del Partito democratico, dove invece la caratterizzazione socialista è contrastata dall’ala di origine democristiana. Emanuele Macaluso spiegò anche con questa ragione la sua scelta di non aderire al nuovo partito e probabilmente le sue riflessioni critiche sono in sintonia con quelle dello stesso Napolitano che, nel 2007, quando si tenne l’assemblea costituente del Pd era già al Quirinale, il che ovviamente importava la sua estraneità da ogni attività di partito. Le questioni che sembra utile approfondire a proposito di questo contrastato percorso politico coronato da un insuccesso sono molteplici. Andando a ritroso si tratta di capire perché la cultura politica di ispirazione cristiana orientata a sinistra si consideri, in Italia, incompatibile o almeno non integrabile nel sistema socialista europeo, a differenza di altre esperienze continentali che hanno visto cristiani impegnati in politica assumere ruoli di rilievo nel movimento socialista, come ad esempio Jacques Delors. D’altra parte, e questo e il secondo problema aperto, le formazioni politiche eredi del Pci rifiutarono di assumere una denominazione socialista, sia quando esisteva la concorrenza del Psi con il quale non ci si voleva confondere o confrontare, sia quando il filone socialista storico non esisteva più come presenza significativa per effetto del diroccamento giudiziario che lo aveva colpito.
Il terzo problema che può essere esaminato in questa schematizzazione (ovviamente discutibile sul piano storiografico ma non priva di una qualche logica politica) è la contrapposizione, anche dopo la caduta del Muro di Berlino, di una sinistra comunque “anticapitalista” a una socialdemocratica considerata subalterna. Andando ancora indietro si può considerare un quarto problema, che riguarda i vari tentativi di riunificazione della sinistra italiana, tutti falliti, sia quelli improntati a un egemonismo comunista esplicito, come l’ipotesi di fusione tra Pci e Psi nella fase del Fronte popolare, sia quelli che partivano dal riconoscimento o dalla pretesa del fallimento delle due ipotesi nella trasformazione socialista in occidente.

Cominciando dalla fine, dal congresso di scioglimento dei Democratici di sinistra, è interessante notare che in quella sede fu l’opposizione di sinistra, espressa in due mozioni firmate rispettivamente da Fabio Mussi e Gavino Angius, di orientamento “berlingueriano” a porre la questione dell’adesione del costituendo partito all’Internazionale socialista come elemento di identità e di rottura. Per una parte si trattava di una manovra strumentale, che utilizzava il rifiuto della Margherita di aderire al Partito socialista europeo come grimaldello per far saltare la fusione. Mussi, in passato, era stato tra i più intransigenti critici della corrente di Giorgio Napolitano proprio perché la accusava di puntare a una funzione subalterna al capitalismo come quella esercitata, secondo lui, dalle socialdemocrazie. Ora invece impugnava la bandiera del socialismo europeo per giustificare una polemica interna che poi è sfociata in una scissione e nell’adesione a un raggruppamento, la “sinistra arcobaleno” che si dimenticò immediatamente del socialismo europeo e che, nelle successive elezioni, passò da 142 parlamentari a zero.
L’episodio può apparire solo una curiosità per alcuni aspetti paradossali, ma si innesta su una questione assai più rilevante: l’assenza di attrattiva del socialismo europeo nei confronti delle formazioni politiche di ispirazione cristiana, che pure accettavano una fusione che si sarebbe presto dimostrata subalterna con quel che restava della nomenclatura comunista. Napolitano, naturalmente, non ha partecipato a questa fase finale del confronto, dalla quale sono anche stati sostanzialmente emarginati i suoi seguaci di partito, come si può evincere dal fatto che tra i 45 membri del comitato promotore del Partito democratico figura un solo riformista “storico”, Enrico Morando.
Questa difficoltà a estendere a settori dell’opinione cattolica l’appello della socialdemocrazia si può far risalire al ruolo che i cattolici avevano esercitato nel Pci, sostanzialmente sotto l’egemonia di Franco Rodano, rilevante soprattutto nella fase del compromesso storico. Rodano fu il più convinto propugnatore di un processo che avrebbe dovuto coinvolgere le masse cattoliche e persino la Dc in una prospettiva “rivoluzionaria” di tipo anticapitalistico, seppure gestita con le forme della democrazia politica. In quella fase, Napolitano, che pure si rese conto del pericolo di isolamento del Psi, che per il resto del suo partito era invece un obiettivo, trascurò di considerare i problemi che si ponevano sul versante cattolico. D’altra parte anche Paolo Bufalini, molto legato a Napolitano ma assai più attento alle evoluzioni del mondo cattolico, guardava più alle gerarchie religiose e alle correnti democristiane, che alle possibili convergenze sul terreno del socialismo europeo.

La battaglia per l’assunzione dell’orizzonte socialdemocratico europeo, condotta in prima persona da Napolitano nell’ultima fase di vita del Pci e in quella iniziale dei Democratici di sinistra, quando le condizioni esterne apparivano più favorevoli, si concluse con qualche successo terminologico ottenuto in documenti ufficiali di partito, ma in una sostanziale sconfitta politica. L’ultimo vero congresso del Pci, quello del marzo 1989, fu introdotto da un roboante discorso di Achille Occhetto che si concluse non solo con il rifiuto di “passare da una tradizione a un’altra” ma con l’orgogliosa affermazione destinata a essere clamorosamente smentita dallo stesso segretario pochi mesi dopo: “Non si comprende perché dovremmo cambiar nome. Il nostro è stato ed è un nome glorioso che va rispettato”. Napolitano non diede battaglia su questo aspetto cruciale, anche se era convinto da tempo che fosse indispensabile uscire in modo esplicito dall’ambito e dai simboli del comunismo. Gli esponenti della corrente riformista che avevano chiesto esplicitamente di cambiare nome al partito furono invitati a smetterla, per evitare che questo fosse preso a pretesto per una discriminazione della corrente dagli organismi dirigenti, che però ci fu egualmente e fu talmente brutale da indurre Napolitano a un’esplicita e inusuale protesta pubblica.
L’idea di Occhetto era che per giustificare agli occhi della base l’abbandono definitivo dei legami con l’Urss fosse necessario rassicurarla che questo non implicava uno spostamento a destra, un’accettazione del sistema capitalistico tipica della socialdemocrazia. Fu così che cambiò nome prima il partito di governo ungherese, che assunse la denominazione di Partito socialista, del Pci italiano. Persino dopo il cedimento del governo polacco a Solidarnosc, la rivista ufficiale del Pci, Rinascita, rispose in modo liquidatorio a un articolo in cui Michele Salvati e Salvatore Veca suggerivano di cambiare il nome del partito, proponendo di trasformarlo in Partito democratico della sinistra. Solo Napolitano reagì, insistendo sull’esigenza di un cambiamento radicale, ma fu duramente contestato. Non fu Napolitano ma il leader laburista Neil Kinnock, incontrato nel fatidico 9 novembre del 1989, data della caduta del Muro di Berlino, a convincere Occhetto dell’ineludibilità, nelle nuove circostanze che si erano create così clamorosamente, del cambiamento del nome del partito.
E’ in quel momento che, paradossalmente, si congiungono nel gruppo dirigente del Pci in via di scioglimento, l’adesione all’Internazionale socialista, richiesta già nella primavera del 1990, e la campagna contro i “filosocialisti” interni, identificati nell’area riformista riunita intorno a Napolitano, accusata di subalternità all’arcinemico Bettino Craxi. Messi ai margini, i riformisti non furono neppure consultati sulla scelta del nome e del simbolo del nuovo partito, dei quali non erano persuasi ma che non potevano criticare per non indebolire il fronte maggioritario che avrebbe affrontato l’opposizione politica di Pietro Ingrao e di Alessandro Natta e l’organizzazione secessionista di Armando Cossutta nel congresso di Rimini. Il fatto è che il gruppo dirigente occhettiano non voleva confondersi con i riformisti, con cui pure condivideva la decisione fondamentale della fondazione di un nuovo partito non più comunista. Occhetto impose la votazione di un documento contrario all’intervento in Iraq per liberare il Kuwait invaso, proprio per isolare i riformisti, che anche negli organismi dirigenti del nuovo partito subirono consistenti esclusioni ed emarginazioni.

La ragione fondamentale della sconfitta del disegno di dare alla sinistra italiana un’impronta esplicitamente socialista fu la competizione con il Psi di Bettino Craxi. Anche quando quella competizione finì per la scomparsa dell’avversario, che era stato coventrizzato dall’azione giudiziaria di Mani pulite, il Pds si limitò, nell’accogliere esponenti socialisti come Valdo Spini, Giorgio Ruffolo o Giorgio Benvenuto, a cambiare la denominazione in Democratici di sinistra. Napolitano non partecipò direttamente alla battaglia politica interna al partito di quella fase, essendo diventato presidente della Camera dei deputati dopo l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. Napolitano, fedele all’idea di un’alternanza imperniata sull’accordo tra partiti di sinistra e laici, avrebbe preferito Giovanni Spadolini, ma finì ancora una volta in minoranza nella direzione del suo partito. Da allora la riflessione politica di Napolitano assunse un carattere meno immediato e più istituzionale, che, sul tema dell’anomalia della configurazione politica italiana rispetto a quella europea, ha continuato a insistere.
Nel corso di una lunga battaglia politica in parte infruttuosa, sono naturalmente emerse in primo piano le posizioni soggettive, il comportamento dei vari leader, Napolitano compreso, ma in una visione meno influenzata dall’esigenza di risposte immediate, come quella che rappresenta il filo conduttore di un sorta di autobiografia politica di Napolitano, intitolata “Dal Pci al socialismo europeo” (Editori Riuniti, 2006), si possono trovare spunti per un approfondimento delle ragioni storiche, culturali e sociali di questa peculiarità italiana. Si tratta delle questioni apparentemente più lontane nel tempo, che rivestono un carattere più “ideologico”, come quello della relazione tra riformismo socialdemocratico e correzione o accettazione del capitalismo, e quello della tendenza alla frammentazione della sinistra di ispirazione socialista in Italia che ha sempre prevalso sui tentativi di riunificazione. A questo aspetto del problema Napolitano ha dato in varie occasioni contributi analitici che sarà interessante riesaminare, confrontandoli con un sommario esame delle tendenze specifiche che hanno caratterizzato la vicenda peculiare della sinistra italiana, inserita ma poco integrata in quella europea. E’ appunto nella prospettiva di un europeismo socialdemocratico che deve essere inquadrata l’operazione Monti, cui Napolitano ha dato vita spendendo la forte autorevolezza del Quirinale. L’esperimento tecnocratico è servito a stabilizzare il Pd sulla linea europeista uscita sconfitta nel 1989 e inveratasi come nemesi politica nel 2011.
(4. continua)

Le precedenti puntate sono state pubblicate il 2, il 4 e il 10 gennaio e sono disponibili su www.ilfoglio.it