Così la “fabbrica delle idee” si sposta in Cina a suon di brevetti
La “fabbrica delle idee” si è spostata in Cina. L’ufficio brevetti della Repubblica popolare è diventato il più grande del mondo superando quello degli Stati Uniti: nel 2011 sono state depositate più di 526 mila richieste, un quarto del totale a livello globale, contro le 503 mila americane. Sono i numeri appena resi noti dalla World intellectual property organization, agenzia delle Nazioni Unite che monitora la proprietà intellettuale, a certificare il sorpasso storico della Cina che arriva nella posizione che nell’ultimo secolo è stata occupata solo da Giappone, Stati Uniti e Germania.
La “fabbrica delle idee” si è spostata in Cina. L’ufficio brevetti della Repubblica popolare è diventato il più grande del mondo superando quello degli Stati Uniti: nel 2011 sono state depositate più di 526 mila richieste, un quarto del totale a livello globale, contro le 503 mila americane. Sono i numeri appena resi noti dalla World intellectual property organization, agenzia delle Nazioni Unite che monitora la proprietà intellettuale, a certificare il sorpasso storico della Cina che arriva nella posizione che nell’ultimo secolo è stata occupata solo da Giappone, Stati Uniti e Germania. Questo accade mentre in occidente si sta affievolendo la “produzione” di idee. L’innovazione tecnologica galoppa tra smartphone e tablet, ma “inventeremo qualcosa di così utile da essere rivoluzionario com’è stato ad esempio il W.C.?”, si chiedeva infatti l’Economist sulla copertina della scorsa settimana. Dire che il processo innovativo si sia fermato è forse “esagerato” ma di fatto, nota il settimanale inglese, “a quest’ora avremmo dovuto viaggiare su macchine volanti e invece abbiamo solo Twitter”, un social network. E quanto si può ottenere in termini economici da un’invenzione simile? Poco. L’Economist chiama in causa Robert J. Gordon, professore della Northwestern University, teorico della “non crescita” americana. Gordon parte dall’assunto che il progresso non è un processo garantito ed eterno e che nel secolo scorso abbiamo cavalcato una “grande onda” di innovazioni ormai esaurita. “Abbiamo già inventato le cose più importanti, ci sarà un’inversione demografica negli Stati Uniti (più persone anziane e meno giovani) e avremo un sistema scolastico sempre più povero che farà scivolare il paese nelle classifiche degli obiettivi Ocse sull’educazione”, dice Gordon al Foglio, stimando che, per altri fattori, il tasso di crescita del pil scenderà nei prossimi cinquant’anni attorno allo zero per cento. “Il rallentamento della crescita tecnologica americana – aggiunge Gordon – impatterà anche sull’Europa, sebbene la Germania stia facendo passi da gigante nella manifattura”.
Tutti dovranno cercare di competere con la Cina, potenza ormai emersa, che nel corso degli anni ha “collaborato” con le imprese che lì hanno delocalizzato imparando nel frattempo il “know how”, riuscendo a riprodurlo in modo fedele, magari copiando. Marco Bonetto guida la Bonetto design, società di Milano che negli anni Ottanta progettò il telefono “arancione” per le cabine Telecom e che oggi lavora anche per Volkswagen. Dice che il lavoro in Cina è stato “difficile” perché una volta presentata l’idea il cliente si eclissava e il prodotto ricompariva più tardi sotto altro nome. (Per averne contezza, basta vedere quanto il marchio automobilistico cinese Byd, nella foto, sia per esempio una copia fedele di quello Bmw). “Il design inteso come forma estetica non è ancora difeso a dovere – dice Bonetto al Foglio – e la Cina risulta un paese pericoloso nello svelare idee particolarmente interessanti e innovative”. L’unico modo per batterli era andare più veloce di loro lanciando nuovi prodotti ogni dodici mesi, perché non riuscissero a stare al passo, come accade per alcune imprese di componentistica elettronica del varesotto. Ora però la Cina “sta gradualmente cambiando”, dice Bonetto: “Molte aziende adesso sono dotate di uffici interni per creare prodotti più specifici e riconoscibili dalla clientela cinese, senza dimenticare che stanno anche nascendo università del design in loco”. Era dunque solo questione di tempo perché la Cina sfidasse l’occidente sul campo dell’innovazione. “Vedremo una Cina che saprà produrre e soprattutto inventare cose nuove”, dice al Foglio Airaldo Piva, manager per l’Europa della terza conglomerata cinese per dimensioni, la Hengdian Group. In Cina da oltre vent’anni, Piva spiega che sia Hengdian sia altri concorrenti di casa stanno investendo in maniera consistente in ricerca e sviluppo in ogni campo: elettronica, farmaceutica, energia, intrattenimento, nel caso della stessa Hengdian. Quest’ultima, per esempio, fattura 4 miliardi l’anno e ne investe il 5 per cento, più la spesa in formazione. “Non siamo un caso isolato e adesso ci stiamo concentrando sulle energie alternative, problema sentito per una nazione che produce più delle altre”, dice Piva, nominato “esperto esterno” (foreign expert) dal governo di Pechino. Ieri il Financial Times dava conto di un altro sorpasso: la Cina è diventato il più grande investitore in energie rinnovabili, superando gli Stati Uniti.
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