Il dott. Ingroia

Stefano Di Michele

Eppure, non si può dire che Antonio Ingroia manchi di certe fortune. Per esempio, la faccia. Giusto i maldicenti, o i poco fantasiosi,  possono spacciarla per quasi uno stampo del Grande Inquisitore dostoevskiano, solo penombra e sentenza; in realtà, el cívico revolucionario ha felice e strepitosa somiglianza (notare, prego) con quella cordiale di Giobbe Covatta – e ciò dovrebbe ben disporre il non meno rivoluzionario e civico futuro suo elettorato. Pare destinato, il dott. Ingroia, a successi mediatici che già in parte gli arridono: il maggiore glielo ha regalato il Cav., mimando davanti ai suoi occhi un ammanettamento.

    Eppure, non si può dire che Antonio Ingroia manchi di certe fortune. Per esempio, la faccia. Giusto i maldicenti, o i poco fantasiosi,  possono spacciarla per quasi uno stampo del Grande Inquisitore dostoevskiano, solo penombra e sentenza; in realtà, el cívico revolucionario ha felice e strepitosa somiglianza (notare, prego) con quella cordiale di Giobbe Covatta – e ciò dovrebbe ben disporre il non meno rivoluzionario e civico futuro suo elettorato. Pare destinato, il dott. Ingroia, a successi mediatici che già in parte gli arridono: il maggiore glielo ha regalato il Cav., mimando davanti ai suoi occhi un ammanettamento (lui tranquillo e ridente: neanche un comprensibile “slurp! slurp!”); l’altro la trasmissione “Un giorno da pecora”, dove con vere manette ai polsi ammanettato il dott. Ingroia figurava. Se così la faccia lo avvantaggia, è la parola, l’eloquio, che rischia di tradirlo. Rispetto al primario pubblico apparire, quando portò mano nella mano sul palco, come ballo delle debuttanti democratiche, la Costituzione – e quella brandendo: ammoniva, esaltava, scandiva – adesso si nota lo sforzo (faticoso) di apparire meno (filologicamente) manettaro, meno (noiosamente) saccente.

    C’ha provato persino tentando di imbarcare Dylan Dog sul suo naviglio (bellissima la faccia del fumetto, orrendo lo slogan dei neofumettari: “Basta con questi mostri che ammorbano le istituzioni”, roba da far schiattare di risate pure il Cico di Zagor), ma ha dovuto fare marcia indietro, con sermoncino finale ai suoi: “Ragazzi, facciamo la Rivoluzione Civile, ma facciamola anche legale. Il copyright va rispettato”. Ecco, è la legalità il chiodo fisso – chiodo che inchioda, immobilizza – del dott. Ingroia. Ottima cosa, si capisce, la legalità; schifosa cosa, si conviene, la mafia. Ma il linguaggio di Ingroia lì si spiaggia, boccheggia, si schianta – avesse messo Diabolik sul manifesto, sarebbe stato sì ben più spiazzante e spiritoso, nessuno del suo impegno dubbioso, lasciando a Travaglio lo scontato elogio di Ginko – legalitario sì, ma noioso di più. Ma mafia e legalità, legalità e mafia, qualche sconfinamento nella famosa trattativa, un’ombra di giardino tropical come in una canzone di Conte – “l’ultima carità di una rumba”, meglio se guatemalteca, arancio vitaminico e il rosso del mondo (bersanianamente sbiadito, dice), ma ove gli altri solo valutano si capisce dalle sue parole che non poco il dott. Ingroia sopravvaluta – si piace, si concupisce, si voterebbe, diciamo.

    Appare, nel periglio di più vaste discussioni, quale il grande De Filippo in certi dialoghi da sublime commedia: “Ho detto tutto…”, dopo indistinto borbottìo. Lì sembra stare, ad ascoltarlo: come domatore a sua volta domato dalla sua missione e dalla sua frusta, come Paganini però sempre alla replica portato o alla replica costretto – alla sua passione, alla sua ossessione, quasi alla sua fede. Pure se di economia deve parlare, d’ogni altro male del paese discorrere, al male a lui noto (esistenzialmente quasi caro) si volge. “Caro Bersani, così non va. La questione morale e la lotta alla mafia devono essere priorità dell’impegno politico”. “Non vuole una politica antimafia nuova e rivoluzionaria”. Il leader Pd non alza il telefono? “Evidentemente si sente il Padreterno, mentre Falcone e Borsellino mi rispondevano al primo squillo” –  come si ha da intendere e cosa da pensare dà, un parogone così combinato e una frase così  articolata? Magari, chissà, poi si desisterà. O mai dalla lotta s’arretra – che alitano, sul suo collo, i puri più puri. Ma intanto s’erge, SuperIngroia, s’ingloria. “Abolizione dell’Imu, imposta patrimoniale, caccia ai grandi patrimoni illeciti…”. Ehhh, replica dubbiosa del giornalista (Sky). “Io ci riuscirò. C’è una bella differenza tra i tanti che ci hanno provato e Antonio Ingroia che c’è riuscito da magistrato, figuriamoci se non ci riesce da politico”, replica marmorea del candidato. A spiegazione dello svaporare dei Di Pietro e dei Diliberto: “La prima fila è Antonio Ingroia, la seconda fila è tutta società civile”.

    Le terze file, le poltrone laterali, restano: innominate – ove i riflettori s’affanano. Ci mancherebbe: mafia (disgusto)/legalità (esaltazione). Firma e controfirma. E poi e dopo? Non di sola antimafia (per fortuna) si vive, non di sola mafia (per fortuna) l’uomo muore. A volte, ora Ingroia sorride. “Conquisteremo Palazzo Chigi, e avremo milioni di consenso perché vogliamo fare una rivoluzione pacifica dei cittadini” – e di ciò, pur se propaganda è, sorridere si deve, per (giustificata) dismisura. Ma ancor di più dà l’idea di bastare a se stesso – e a tutti gli altri di voler così bastare.