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La locomotiva cinese trainerà la ripresa, con vagoni occidentali
La crisi economica si è fatta sentire nell’ultimo anno anche in Cina (crescita del pil sotto l’8 per cento, non accadeva dal 1999), ma gli investimenti non sembrano risentirne e il governo annuncia che entro il 2018 Pechino avrà il suo nuovo grande aeroporto. Fino a oggi, la metropoli cinese poteva contare solo su uno scalo, il Capital Airport. Troppo poco, troppo piccolo per una città che ha venti milioni di abitanti, hanno detto le autorità. E’ anche questione di ambizione. Per le Olimpiadi del 2008, era stato costruito in soli quattro anni il terminal 3, un’enorme struttura in acciaio e vetro progettata da Norman Foster.
La crisi economica si è fatta sentire nell’ultimo anno anche in Cina (crescita del pil sotto l’8 per cento, non accadeva dal 1999), ma gli investimenti non sembrano risentirne e il governo annuncia che entro il 2018 Pechino avrà il suo nuovo grande aeroporto. Fino a oggi, la metropoli cinese poteva contare solo su uno scalo, il Capital Airport. Troppo poco, troppo piccolo per una città che ha venti milioni di abitanti, hanno detto le autorità. E’ anche questione di ambizione. Per le Olimpiadi del 2008, era stato costruito in soli quattro anni il terminal 3, un’enorme struttura in acciaio e vetro progettata da Norman Foster. Una Stansted in grande, disse qualcuno, riferendosi allo scalo a nord-est di Londra servito dalle compagnie low-cost, pure quello disegnato dall’archistar inglese. Dopotutto, la capitale britannica di scali ne ha cinque, New York tre. L’aeroporto potrà contare su sei reti ferroviarie a uso civile, la settima sarà riservata ai militari. “Servirà 45 milioni di passeggeri l’anno, arrivando a quota 70 milioni entro il 2025”, ha spiegato entusiasta Zhu Wenxin, vicedirettore dell’ufficio che si occuperà della costruzione dello scalo.
Che la Cina torni a crescere lo testimonia anche la portata dell’investimento: 70 miliardi di yuan, pari a 11,2 miliardi di dollari. Cifre che non spaventano, soprattutto se necessarie a sviluppare le infrastrutture, punto cardine del nuovo piano di investimenti ripartito dopo l’incidente ferroviario di Wenzhou, nell’agosto del 2011 – oltre all’errore umano, all’origine del disastro c’era un “difetto di progettazione”. Sull’alta velocità Pechino intende investire sempre di più, e non a caso le autorità hanno sottolineato quanto importanti saranno i collegamenti su rotaia tra il centro della capitale e il nuovo scalo. I primi dati diffusi dalle autorità cinesi – da prendere con prudenza, vista la scarsa trasparenza del governo di Pechino – fanno pensare che la ripresa sia partita, anche se i numeri record degli anni Novanta sono da dimenticare: “Le stime della Banca mondiale per il 2013 parlano di una crescita del pil su base annua dell’8,4 per cento”, dice al Foglio Giuseppe Gabusi, docente di Economia politica internazionale e Politiche economiche dell’Asia orientale all’Università di Torino, che aggiunge: “La crescita è reale, anche se continua a essere sbilanciata sugli investimenti e molto dipendente dalle esportazioni, non a caso a questi dati si accompagna una timida ripresa del mercato statunitense”. A ogni modo, spiega Gabusi, “le stime sono plausibili”. D’altronde, la Cina è un paese come tutti gli altri, “esposto agli alti e bassi del ciclo economico globale”, ha detto al Financial Times Stephen King, capo economista di Hsbc, “ed è probabile che nel 2013 la sua economia riprenderà vigore, grazie a nuovi massicci investimenti nelle infrastrutture”. Proprio per questo, aggiunge King, “la crescita sarà più alta rispetto al 2012, ma nettamente inferiore rispetto agli anni precedenti”. Il grosso timore, semmai, è l’aumento dell’inflazione: potrebbe essere questo, secondo un’analisi del New York Times pubblicata domenica scorsa, il nuovo problema capace di rallentare il ritmo dell’economia cinese. A dicembre, il tasso d’inflazione è cresciuto del 2,5 per cento (a novembre era già aumentato del 2 per cento). Nulla di preoccupante, secondo il Wall Street Journal, ma il dubbio che le cifre siano altre è forte, come ha detto al Nyt l’economista Stephen Green, secondo cui l’inflazione reale potrebbe toccare il 5 per cento nel quarto trimestre, con la conseguenza che “la Banca centrale di Pechino potrebbe decidere l’aumento dei tassi d’interesse”.
Gli investimenti diretti esteri calano
I prezzi a dicembre sono cresciuti anche a causa dell’inverno più freddo degli ultimi trent’anni che ha messo in ginocchio le produzioni agricole del nord, solitamente abituato a un clima temperato. Si spiegano così gli aumenti repentini del 10 e 20 per cento su frutta e verdura, visti sabato scorso in un mercato di Guangzhou (Cina meridionale). Pochi si sono lamentati, almeno fino a ora: “Hanno capito che la colpa è del freddo”, spiegano i commercianti. Tuttavia – per evitare tensioni – l’agenzia di stampa ufficiale, Xinhua, precisa che il governo sta già correndo ai ripari grazie alle riserve di vegetali stoccate da tempo.
Eppure, spiega Yao Wei, di Société Générale, ad aumentare non sono solo i prezzi dei mandarini nei mercati, ma anche gli affitti per le case: un rialzo del 3 per cento rispetto all’anno precedente. Al momento, dice Giuseppe Gabusi, “il dato sull’inflazione non è allarmante, anche perché in gran parte risente dell’aumento dei prezzi dovuto alla scarsità del raccolto. Difficilmente l’inflazione supererà il 3,5 per cento, soglia considerata accettabile dal governo di Pechino per mantenere la stabilità sociale”. Considerato però “il continuo apprezzamento dello yuan e la necessità (impellente) di stabilire i consumi interni, le autorità dovranno essere estremamente vigili”, continua il nostro interlocutore. Il problema, spiega Gabusi, non è tanto l’esistenza di una bolla inflattiva pronta a scoppiare, quanto il fatto che “da anni si ripetano ondate di aumenti a due cifre dei prezzi alimentari”. Potrebbe essere questo il segnale di “un deterioramento del food security in Cina, legato alle criticità dell’agricoltura, settore trascurato già negli anni Novanta, e soprattutto al pesante inquinamento del suolo, dell’aria e dell’acqua”.
Se i primi timidi segnali di una ripresa iniziano a intravvedersi e l’inflazione (per ora) non preoccupa più di tanto, qualche grattacapo in più lo danno gli investimenti diretti esteri in Cina, calati del 3,7 per cento rispetto al 2011. I costi di produzione nelle fabbriche dell’entroterra cinese sono sempre più alti, così come i salari, e le multinazionali iniziano a espandersi altrove, India, Indonesia e Vietnam. Nonostante ciò, se il mondo andrà incontro alla ripresa, molto dipenderà dalla Cina, dice Gabusi: “L’Europa non trainerà nulla, si dovrà guardare a Cina e Stati Uniti”. Anche se il pil di Pechino è un terzo rispetto a quello di Washington, “le sorti economiche dei due paesi sono collegate, in quanto la maggiore quota di profitti delle esportazioni cinesi finisce in aziende multinazionali (spesso americane) e la Cina è il maggior creditore degli Stati Uniti”. Saranno questi i due paesi capofila della ripresa, aggiunge il nostro interlocutore: “La locomotiva cinese ha bisogno dei vagoni occidentali e nel lungo periodo il processo di urbanizzazione in atto renderà l’andamento di quel mercato assai più cruciale per l’economia mondiale di quanto non lo sia ora”.
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