Perché Guardiola ha scelto il Bayern, la locomotiva tedesca del calcio

Beppe Di Corrado

I numeri spiegano a metà. Perché 22 campionati vinti, più 15 coppe di Germania, più quattro Coppe dei campioni (tre nella vecchia versione, una come Champions League), più due Intercontinentali, più altre coppe e coppette varie, non spiegano che cosa sia il Bayern Monaco. Dicono l’ovvio: uno dei club più importanti d’Europa. Ma quello che troverà Pep Guardiola dal primo luglio prossimo non sarà soltanto questo. E’ una società, una squadra, uno stile diverso rispetto al resto del panorama pallonaro globale, a cominciare dal Barcellona.

    I numeri spiegano a metà. Perché 22 campionati vinti, più 15 coppe di Germania, più quattro Coppe dei campioni (tre nella vecchia versione, una come Champions League), più due Intercontinentali, più altre coppe e coppette varie, non spiegano che cosa sia il Bayern Monaco. Dicono l’ovvio: uno dei club più importanti d’Europa. Ma quello che troverà Pep Guardiola dal primo luglio prossimo non sarà soltanto questo. E’ una società, una squadra, uno stile diverso rispetto al resto del panorama pallonaro globale, a cominciare dal Barcellona. “Ricreerò il Barça in Germania”, avrebbe detto l’allenatore catalano. Se l’ha detto davvero ha sbagliato. Se non l’ha detto e gliel’hanno attribuito pensando di stuzzicare voglie e ambizioni della gente bavarese non hanno capito due volte. Perché il Bayern non si sente inferiore a nessuno. Perché il Bayern non raggiunge oggi i risultati del Barcellona, ma sta lavorando con l’idea di superarli. Il Barça è il Barça per le capacità dei suoi giocatori, dei suoi allenatori e di parte della sua società, ma pure per aiuti più o meno grandi che il sistema del calcio spagnolo gli ha dato: le agevolazioni fiscali, la leggerezza delle norme che regolano i conti delle società sportive. Il Barcellona ha una montagna di debiti e il bilancio negativo, è fuori dalle regole del fair play finanziario che riesce, come altri club, ad aggirare. Il Bayern, invece, marcia: riesce a fare soldi col pallone e contemporaneamente a rimanere ai vertici. Due finali di Champions giocate (ma perse) nelle ultime tre stagioni, due campionati vinti negli ultimi cinque anni. Non è il Barça, ma l’anno scorso ha chiuso con 70 milioni di utile.

    Però ancora, i numeri spiegano a metà. Perché il modello Bayern è questo: essere fighi, bravi, forti, stare sul mercato comprando giocatori e allenatori, vincere, e contemporaneamente fare business. Il Bayern realizza i desideri degli altri. Perché tutti ci provano e pochi ci riescono. Se lasci da parte un attimo il Barcellona e pensi a Psg e Manchester City trovi una parte del progetto: quello che tiene dentro la figaggine, la bravura, il mercato, i giocatori, gli allenatori, le vittorie. Però non hai il ritorno. Non hai lo scopo extrasportivo dello sport professionistico: il profitto. Al Bayern c’è: i soci guadagnano ogni anno più del precedente e quest’anno più di ogni altro anno della loro storia. I soci all’80 per cento sono tifosi, l’altro 20 per cento è diviso praticamente tra Adidas e Audi, che oltretutto sponsorizzano la squadra. La costruzione dello stadio (fatta per i Mondiali del 2006) ha aiutato molto: lì dentro c’è la variabile che spesso fa la differenza. Perché gli store, i ristoranti, la cessione dell’impianto per i concerti, aiutano a sviluppare i ricavi.
    La struttura il Bayern l’ha copiata dal Colonia. Erano gli anni Sessanta e all’epoca la squadra di Monaco era poca cosa. Poi fu creata la Bundesliga e da allora il Bayern diventò una delle squadre più forti della Germania. Il paradosso ha voluto che il Colonia sia retrocesso e pure fallito, il Bayern dal 1965 non è mai andato in B e macina quattrini. E’ lo spot dell’equilibrio tra investimenti e allevamento dei propri talenti: a Monaco c’è un’accademia che vale almeno quanto la cantera del Barcellona, ma che il club non pubblicizza come fa invece il Barça. Da lì sono usciti Schweinsteiger, Lahm, Müller. Tutti titolari, tutti nazionali tedeschi, tutti patrimonio umano ed economico del club. Il resto si compra sul mercato, senza false illusioni neopauperiste. D’altronde la differenza qui la fa la gente, non l’idea.

    Ai vertici del club ci sono Uli Hoeness, Karl-Heinze Rummenigge, Matthias Sammer, Franz Beckenbauer. Chi sa fare, sa capire, in sostanza. Loro scelgono la parte tecnica, i manager puri quella economica. Il nome, qui, è Andreas Jung. Al Bayern si compra chi serve, e per chi serve si spende, anche tanto. Senza ipocrisia, senza retorica, senza negare che più soldi hai, più cose riesci a fare. Solo che in più hanno aggiunto il dettaglio finale: investi, sì. Ma poi la cassa deve essere piena comunque.