Master of tv

Stefano Pistolini

Infilare, a raffica, due successi fragorosi e transmediali come “X Factor” e “Masterchef” è procedura che rivoluziona definitivamente gli equilibri dello scenario tv italiano, in modo ben più intenso degli effimeri boom di numeri – Santoro, Benigni, Celentano – a cui si avvinghiano i vecchi network. Sebbene non dispongano di maggioranze bulgare, i programmi in questione sono quelli di cui si parla, che eccitano, divertono e ridanno alla televisione il compito di benzina per l’immaginazione popolare.

    Infilare, a raffica, due successi fragorosi e transmediali come “X Factor” e “Masterchef” è procedura che rivoluziona definitivamente gli equilibri dello scenario tv italiano, in modo ben più intenso degli effimeri boom di numeri – Santoro, Benigni, Celentano – a cui si avvinghiano i vecchi network. Sebbene non dispongano di maggioranze bulgare, i programmi in questione sono quelli di cui si parla, che eccitano, divertono e ridanno alla televisione il compito di benzina per l’immaginazione popolare. Dopo anni di rodaggio e dozzine di programmi che vagavano a vuoto, finalmente il cibo è in tv nel modo esplosivamente giusto. E con un format che ha la prerogativa d’essere declinato al meglio nell’edizione italiana, distillando il prodotto e illuminandolo perché a Sky conoscono la pietra filosofale della televisione per il XXI secolo, come “X Factor” già suggeriva. “Masterchef” convince per la mirabile mescola degli ingredienti d’una trasmissione di cucina che si disinteressa di ricette (ossia della quotidianità banale di Antonella Clerici), e diverte per le messinscene camp di cui si diletta (il golf club, la cucina in costume, il villaggio turistico… l’italian dream inondato di polpette!). C’è una posta alta e atmosfere tese: ci si gioca il titolo di Masterchef, status sacerdotale raggiunto attraverso prove estreme di selezione creativa e intellettuale. Si chiede a un gruppo di appassionati di cucina d’imparare a levitare nel delirio monomaniacale della trasmissione, d’acquistare la sexyness connessa al plasmare i cibi. Poco vale, nel gioco, la loro caratterialità, contraddetta dalla qualità delle prestazioni ai fornelli.

    Spazio invece a un rito d’iniziazione di stampo orientale, nella celebrazione del quale i tre maestri sono divinità assolute. Loro possiedono quel sapere a cui aspirano i candidati, le loro parole sono sentenze e il sollevarsi d’un loro sopracciglio equivale a una ghigliottina (come le antiche divinità, poi, sono teatralmente còlti da attacchi d’ira di fronte all’umana imperizia, sotto forma di scodella). La triade è formidabile: arguzia (Barbieri), impeto creativo (Bastianich) e luminoso fascino (il dio venerabile Cracco, dal nome che evoca esoterismi medievali), mentre le performance migliorano di puntata in puntata, quanto più s’asciugano e acquistano ritmi da sibille. I cibi sono lì, ma attraverso il video più che allettare, talvolta folgorano. Domina il fattore estetico, carburato dall’emotività dei concorrenti. Forme e colori sovrastano i sapori. Si celebra l’arte dell’impiattare, l’occhio che vuole la sua parte, si scrutano le bocche dei maestri che mordono veloci la pietanza dell’allievo, il silenzio, la suspense, spesso mascherata dalla celia, poi il responso dei tre divini giudici. E gli aspiranti che s’illuminano o piangono: non c’è finzione, loro vivono dentro la situazione, nella terra delle mille forchette.

    “Masterchef 2”, che nella versione italiana surclassa gli esibizionismi psycho di Gordon Ramsay, esalta la voga della democrazia-show in tv, secondo cui c’è più sale nell’avvento d’uno sconosciuto al pantheon delle celebrity che nell’apparizione di divi accertati. Partiti dall’intuizione del “Grande Fratello”, poi coniugate le scansioni “talent” al posto della contemplazione dello “zoo di vetro”, ora si producono effettivi rinnovamenti. “Masterchef” è il programma-monstre della stagione: il futuro della tv d’intrattenimento riparte da qui.