Darci un taglio con il taglio cesareo, meglio tardi che mai

Roberto Volpi

Ha fatto grande scalpore, alla fine della scorsa settimana, la notizia che un’indagine dei Nas, avviata quasi un anno fa su iniziativa del ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha rivelato che il quarantatré per cento dei parti cesarei che si effettuano ogni anno in Italia è “inappropriato”. L’indagine ha riguardato settantotto diverse strutture ospedaliere pubbliche e private, delle quali solo trentadue sono state al momento verificate, per un totale di 1.117 cartelle cliniche sulle 3.273 raccolte.

    Ha fatto grande scalpore, alla fine della scorsa settimana, la notizia che un’indagine dei Nas, avviata quasi un anno fa su iniziativa del ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha rivelato che il quarantatré per cento dei parti cesarei che si effettuano ogni anno in Italia è “inappropriato”. L’indagine ha riguardato settantotto diverse strutture ospedaliere pubbliche e private, delle quali solo trentadue sono state al momento verificate, per un totale di 1.117 cartelle cliniche sulle 3.273 raccolte. Dovremmo andare un po’ più cauti, con questi dati ancora ballerini, non fosse che la “non appropriatezza” del cesareo in Italia è cosa vecchia e risaputa – a tal punto che lo stupore odierno appare quantomeno fuori tempo.
    Che sotto la quota abnorme dei parti cesarei in Italia (attorno al quaranta per cento sul totale) ci fosse una truffa bella e buona è cosa più che risaputa. Ed è dovuta al fatto che quel tipo di parto viene pagato o rimborsato dal Servizio sanitario nazionale pressoché il doppio rispetto a un parto normale, con arricchimento indebito di coloro che vi prendono parte – a cominciare dalla struttura ospedaliera, alla quale affluiranno più soldi. Se mi è permesso citarmi: lo scrivo su questo stesso giornale da anni, che sarebbe stato opportuno avviare un’indagine seria per mettere fine a uno scandalo nazionale. Così palese e scoperto (oltre che segnalato già da molti anni da alcuni organismi internazionali che si occupano di salute, come l’Oms, le cui linee guida parlano di non più del 10-15 per cento di cesarei sul totale come della percentuale superata la quale diventa lecito dubitare della loro appropriatezza) da lasciare sconcertati sul livello di impunità e faccia tosta raggiunto in certi settori del Servizio sanitario nazionale.

    La giustificazione dell’aumento costante del ricorso al cesareo – il cosiddetto parto programmato, giacché come operazione chirurgica da svolgersi in anestesia generale il parto cesareo viene sottratto alla “tempistica” naturale e affidato a quella lavorativa degli operatori ostetrici – è sempre stata la seguente: il grande innalzamento dell’età media delle partorienti, che comporta un parallelo aumento delle difficoltà della gravidanza prima e del parto poi. L’età media al parto è effettivamente aumentata di cinque-sei anni tra gli anni Sessanta e oggi, quand’è ormai vicina ai trentadue anni. Ma l’incremento della percentuale di cesarei sul totale dei parti è di un ordine tale che non poteva essere in linea neppure col pur significativo aumento della proporzione delle ultraquarantenni tra le partorienti. Per non dire che la “tecnologia” della gravidanza e del parto nel frattempo è stata rivoluzionata dalle fondamenta, e ciò che era difficile una volta non è più tale oggi. Oggi, semmai, è l’eccesso di visite, ecografie, esami di tutti i tipi, accorgimenti senza fine e follow up asfissianti a rischiare di rappresentare un fattore di rischio per chi deve mettere al mondo un figlio.
    Eppure, la truffa saltava agli occhi proprio a prendere per buona la giustificazione che il fattore scatenante della corsa al cesareo fosse da ricercarsi nella sempre più alta età al parto delle italiane.

    Perché se davvero fosse stato così, avremmo dovuto trovare una geografia dell’abnorme incidenza del parto cesareo del tutto rovesciata rispetto a quella reale. Per spiegarci: mentre il cesareo trionfava al sud, e segnatamente in regioni come la Campania con assai più di un parto su due fatto con questa tecnica (62 per cento sul totale, per la precisione), l’età media più alta delle partorienti si riscontrava da tutt’altre parti: al nord e in regioni del centro come la Toscana, dove la proporzione dei cesarei era più bassa anche di venti punti percentuali rispetto alle regioni del sud. E’ dunque chiaro che i criteri che guidavano il ricorso all’aborto erano assai diversi tra regione e regione, e che questa diversità aveva poco a che vedere con ragioni oggettive. Meno che meno con l’età delle partorienti, che sembrava semmai funzionare in modo esattamente opposto: madri più giovani uguale più cesarei, madri più anziane uguale meno cesarei. Che si voleva di più, per agire? Non è il caso di mettersi a recriminare oggi che finalmente un’azione di controllo e verifica è stata avviata. E, com’era facile prevedere, sta dando frutti copiosi e, nel loro sfiorare il grottesco (in Sicilia per otto cesarei su dieci manca del tutto o quasi la documentazione, in Campania la presentazione podalica del feto riguarda poco meno di un neonato su quattro, roba che nemmeno nel Guinness mondiale dei primati), perfettamente attesi da chi avesse seguito la progressione nel tempo e la distribuzione sul territorio dei parti cesarei. Cosicché sbaglia a meravigliarsene il ministro Renato Balduzzi. Come sbaglia a usare il condizionale, quando dice che, se davvero sul piano nazionale i dati fossero quelli che l’indagine va mostrando, la truffa ammonterebbe a ottantacinque milioni di euro annui.

    I paradossi del Servizio sanitario nazionale
    I dati sono proprio quelli, non tema il ministro. Così come non dovrebbe temere a mettere in cantiere altre indagini su questa falsariga. Pensi alla diagnostica strumentale, pensi agli esami di laboratorio, pensi al gigantismo sempre crescente dei sistemi di prenotazione e alle liste di attesa che si dilatano invece di accorciarsi, pensi a certi vaccini e a certe vaccinazioni, pensi agli screening antitumorali in generale, pensi ai consumi di farmaci come antibiotici, antipressori, antidepressivi, contro l’osteoporosi e via elencando. Pensi che ci sono in Italia 128 centri pubblici e 27 centri privati convenzionati con il pubblico per la procreazione medicalmente assistita mentre ce ne sono tra pubblici e privati 115 in Gran Bretagna, un centinaio in Francia e non troppi di più in Germania: strano modo per un paese come il nostro, con quel che costano realmente i trattamenti, di essere in un certo senso più giustamente selettivo rispetto alla Pma. E pensi alle centinaia di consultori che sono niente di più di una sigla, sotto la quale si nasconde il vuoto totale d’azione e iniziativa, ma non di costi. E pensi a seimila circa tra test, esami prestazioni e visite che compongono la galassia di ciò che in Italia è ritenuto livello essenziale di assistenza, ovvero da erogarsi gratuitamente o dietro pagamento di un ticket. Pensi a tutto questo e si faccia un quadro di quanto si riuscirebbe a risparmiare, senza nulla togliere agli utenti, anzi semplificandone il ricorso alle prestazioni davvero necessarie, andando semplicemente a vedere com’è che i servizi preposti alla nostra salute giustificano quello che fanno e il modo in cui lo fanno. Le “sorprese” non mancherebbero, è sicuro.