Erano comunisti
Uno ripensa ad Achille Occhetto che si fa cacciare un tortellino in bocca da Funari, e ne conclude con un sospiro benevolente che no, a nessuno si può negare il proprio quarto d’ora di sputtanamento, la vera e agognata apoteosi che Andy Warhol non aveva saputo prevedere. Ogni politico, intellettuale, uomo pubblico scelga dunque il rituale di degradazione che più gli si addice: il catalogo è lungo. Walter Veltroni e Fausto Bertinotti, scesi ormai dalla giostra della politica, hanno oltretutto guadagnato la divina spensieratezza del proverbiale zio pazzo, che può uscire a comprare le sigarette in mutande senza dover temere più nulla, neppure il meschino spauracchio del ridicolo.
Uno ripensa ad Achille Occhetto che si fa cacciare un tortellino in bocca da Funari, e ne conclude con un sospiro benevolente che no, a nessuno si può negare il proprio quarto d’ora di sputtanamento, la vera e agognata apoteosi che Andy Warhol non aveva saputo prevedere. Ogni politico, intellettuale, uomo pubblico scelga dunque il rituale di degradazione che più gli si addice: il catalogo è lungo. Walter Veltroni e Fausto Bertinotti, scesi ormai dalla giostra della politica, hanno oltretutto guadagnato la divina spensieratezza del proverbiale zio pazzo, che può uscire a comprare le sigarette in mutande senza dover temere più nulla, neppure il meschino spauracchio del ridicolo. E allora, se una sera non si ha di meglio da fare, che male c’è ad andare da Fabio Fazio a recitare, assistiti da Paolo Rossi, “Qualcuno era comunista”, il monologo-canzone di Giorgio Gaber? Poi certo, si dirà che il problema è a monte, e che la Rai poteva pensare a qualcosa di più frizzante del format “funerali di Gallinari” per commemorare il decennale della morte di Gaber. Se proprio volevano un politico in scena, avrebbero potuto chiedere a Ignazio La Russa di rifare in diretta la sua irresistibile versione di “Goganga”, e almeno ci si sarebbe divertiti un po’. Ma è andata così, pazienza, e guai a noi se tornassimo a lagnarci della perversa alchimia di Fabio Fazio, che riesce magicamente a rendere detestabile ogni cosa bella, insulsa ogni cosa nobile, e che, con l’intento generoso di trasformare tutti in venerati maestri, trasforma tutti, senza scampo, in soliti stronzi. D’altro canto, il problema non è neppure Fazio: è proprio che la tv, pubblica o privata, sembra incapace di allestire una commemorazione di un personaggio popolare che non sia definibile, in senso tecnico-giuridico, come “vilipendio di cadavere” ex art. 410 c. p.
E allora dov’è il problema? Veltroni e Bertinotti, l’uomo in blazer e l’uomo in cardigan, hanno fatto quel che hanno potuto, e non li si può biasimare troppo se hanno prosciugato il monologo di Gaber di ogni ironia, di ogni ammiccamento, di ogni sottinteso, di ogni senso tragico: mica sono attori. Non li si può biasimare troppo neppure se hanno trasformato quella sofferta e stralunata anamnesi dell’utopia comunista in un manifesto dell’orgoglio ex Pci, o peggio in una delle deprimenti liste di cose buone e giuste care al duo Fazio-Saviano. Del monologo di Gaber, dopo tutto, avevano capito quel che volevano capirne, cioè non moltissimo: per Veltroni è “la più bella descrizione poetica dell’anomalia rappresentata da un Partito comunista occidentale che era riuscito a raggiungere il 34 per cento dei voti”, per Bertinotti una “ballata che racconta di uno straordinario mondo scomparso”. No, il problema non è Veltroni, non è Bertinotti, non è Fazio e neppure la Rai. Il problema, ai tempi di Gaber come oggi, è il pubblico. Sì, il pubblico: quel pubblico che vent’anni fa, nei teatri, mentre Gaber elencava le grandezze ma ancor più le illusioni, le solitudini, le stoltezze e le furbizie di chi aveva scelto di farsi comunista, scrosciava in applausi a dirotto solo quando si sentiva dire che qualcuno era comunista perché “Berlinguer era una brava persona”, perché “Andreotti non era una brava persona”, e perché “abbiamo avuto il peggiore Partito socialista d’Europa”. Quella che poteva diventare una sorta di versione popolare del “Passato di un’illusione” di François Furet, una resa dei conti simpatetica, straziata, ispirata ma anche dura, è diventata l’ennesimo strumento della falsa coscienza dei ragazzi di Berlinguer, l’ennesimo vessillo della diversità, l’ennesimo modo per raccontarsi che magari avevamo torto, ma gli altri avevano più torto di noi; che magari avevamo sbagliato, ma che eravamo comunque meglio dei nostri nemici – e soprattutto dei socialisti.
Vent’anni dopo, gli applausi più incontenibili sono caduti di nuovo, quasi per riflesso pavloviano, sulle stesse parole del monologo di Gaber. E’ l’Italia giusta. Qualcuno non era comunista proprio per questo.
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