Israeliani e palestinesi non si vedono più. Hai voglia a riconoscersi

Rolla Scolari

In linea d'aria la Striscia di Gaza dista da Tel Aviv settantuno chilometri, la stessa distanza che c'è tra Roma e Latina, cinque chilometri in più rispetto al viaggio in autostrada tra Milano e Piacenza. Senza traffico, dal sud di Tel Aviv si raggiunge il confine settentrionale di Gaza in meno di quaranta minuti d'automobile. Ma per i giovani di Tel Aviv la vita dei loro coetanei palestinesi, che abitano a pochi chilometri dai sobborghi meridionali della loro città, è un mistero.

    Tel Aviv. In linea d’aria la Striscia di Gaza dista da Tel Aviv settantuno chilometri, la stessa distanza che c’è tra Roma e Latina, cinque chilometri in più rispetto al viaggio in autostrada tra Milano e Piacenza. Senza traffico, dal sud di Tel Aviv si raggiunge il confine settentrionale di Gaza in meno di quaranta minuti d’automobile. Ma per i giovani di Tel Aviv la vita dei loro coetanei palestinesi, che abitano a pochi chilometri dai sobborghi meridionali della loro città, è un mistero. Così come per molti ventenni che vivono nella Striscia, gli israeliani sono soltanto le divise verdi dei soldati viste in lontananza, oltre il filo spinato del confine. Non è sempre stato così. C’è stato un tempo, prima della catena di attacchi terroristici del 2000-2005 e prima dell’Intifada del 1987-1993, in cui gli israeliani andavano a Gaza a fare la spesa, ci portavano l’auto dal meccanico, facevano una gita il sabato che finiva con una cena a base di pesce nei ristoranti lungo la spiaggia. Tutte le aree palestinesi erano meno care, non soltanto Gaza. Gli abitanti del centro e del nord d’Israele andavano a fare compere nell’attivo mercato di Qalqiliya, nella parte settentrionale della Cisgiordania. Compravano mobili e vasellame.
    Mohammed A. S. non ricorda quel periodo: è nato a Gaza nel 1990. Ha appena finito di studiare inglese all’università e a 22 anni è uscito soltanto una volta dalla Striscia, nel 2005, quando ha passato una notte ad al Arish, cittadina costiera a pochi chilometri da Gaza nel Sinai egiziano. “Non conosco nessun israeliano ed è così anche per la maggior parte dei miei coetanei. I miei amici che abitano a Rafah, nel sud, e Jabaliyah, nel nord vicino al confine, vedono qualche volta i soldati oltre la frontiera, da lontano”, spiega Mohammed. I racconti di prima mano sugli israeliani in carne e ossa arrivano dalla generazione dei suoi genitori e parenti vari: “Mio zio ha ancora un amico israeliano con cui è in contatto, non ho idea di dove viva. E qualche giorno fa ero in taxi e l’autista ha iniziato a parlare in ebraico al cellulare. ‘Cosa sta succedendo?’, ho chiesto. Era al telefono con qualche israeliano oltre il confine”, racconta. Né Mohammed né i suoi amici parlano una parola di ebraico, al contrario della generazione dei genitori, che negli anni Ottanta lavorava in Israele.

    Il ristoratore preoccupato
    Guy Levy è israeliano, ha 37 anni, fa il montatore. Da piccolo abitava con i genitori a Ramat HaSharon, ricco sobborgo di Tel Aviv. L’ultimo suo ricordo di un palestinese in città risale alla metà degli anni Ottanta. “C’era un uomo che girava il quartiere e faceva lavori giornalieri nei giardini o nelle case. Lo conoscevano tutti. Arrivava ogni mattina da Gaza. Ha smesso di venire quando, con lo scoppio della prima Intifada, la circolazione dalla Striscia verso Israele è stata ridotta”. I palestinesi dei Territori – in Israele il 20 per cento della popolazione è araba palestinese con cittadinanza israeliana-Guy li ha incontrati anche durante il suo servizio militare, nel 1994, quando era di stanza a El Bireh, rione di Ramallah. Era la prima volta che entrava in Cisgiordania e oggi ricorda di aver pensato che la cittadina palestinese era ben più moderna di quanto credeva e che le ragazze palestinesi erano belle.
    Dopo gli accordi di Oslo, siglati nel 1993, era nata l’Autorità palestinese. Dal 1994 al 2000, quando è scoppiata la Seconda Intifada, tra gli israeliani c’era ancora chi andava in Cisgiordania e nella Striscia: soprattutto uomini d’affari e imprenditori che acquistavano merci o lavoravano con artigiani locali. La stagione degli attacchi terroristici palestinesi contro le città israeliane ha imposto nuove misure di sicurezza, la chiusura dei valichi, ha aumentato la difficoltà di movimento tra Israele e i Territori palestinesi. La barriera costruita in quegli anni – secondo le statistiche israeliane – ha drasticamente ridotto la minaccia di attentati e reso quasi impossibile il passaggio di persone. La paura e la diffidenza hanno fatto il resto. Oggi una legge israeliana non permette agli israeliani di entrare nei territori amministrati dall’Autorità palestinese se non con speciali permessi. E per i palestinesi, entrare in Israele senza un lasciapassare israeliano è impossibile.
    Guy soddisfa la sua curiosità facendo domande a un giornalista appena tornato da Gaza: “Ci sono supermercati? E cinema? Le donne hanno il burqa? Dove si mangia? Che tipo di ristoranti ci sono?”. Sì, ci sono supermercati, no non ci sono cinema, le donne sono velate, molte a volto scoperto, alcune con il viso coperto, ci sono ristoranti di cucina locale. Domande simili a quelle fatte pochi giorni prima da un ristoratore di Gaza a un gruppo di giornalisti affamati. Il suo era uno dei pochi ristoranti aperti durante l’operazione israeliana Pilastro di Difesa a Gaza, alla fine dell’anno scorso. Era vuoto, ma l’enorme spiedo verticale con le fette di carne infilzate della “shawarma” girava lento nonostante l’assenza di clienti. “Siete stati nel sud d’Israele? – aveva chiesto curioso – Come sono i ristoranti? Avranno anche loro un sacco di problemi con quello che succede”.

    Da Jenin è più facile andare a Dubai
    La Striscia di Gaza è lunga quaranta chilometri, larga dieci. Attraversarla in lunghezza è come andare in automobile da Roma a Fregene. Fino al 2005, su quel piccolo territorio che ospita 1,5 milioni di palestinesi vivevano vicini ma separati anche 8.600 israeliani, negli insediamenti poi sgomberati dall’Amministrazione dell’ex premier Ariel Sharon. Nel 2007, il gruppo islamista palestinese Hamas ha conquistato militarmente Gaza, strappando il controllo amministrativo ai rivali politici di Fatah, movimento del rais Abu Mazen, al potere nella vicina Cisgiordania, divisa politicamente e geograficamente dalla Striscia. Da allora, i gruppi radicali palestinesi non hanno smesso di lanciare razzi sul sud d’Israele e già due volte l’esercito israeliano ha condotto operazioni militari di grandi proporzioni contro Gaza. I confini sono quasi sigillati per il passaggio di persone da Gaza in Israele: servono permessi speciali israeliani, nella maggior parte dei casi emessi per emergenze o malattie. Chi vive a Gaza e vuole viaggiare deve usare il valico di Rafah, con l’Egitto. Per anni il Cairo dell’ex rais Hosni Mubarak ha tenuto aperto il passaggio soltanto di rado. Molti residenti raccontano che dopo la rivoluzione del 2011 il governo ha aperto il valico più spesso, anche se servono soldi, permessi e conoscenze tra gli agenti della sicurezza egiziana per avere un passaggio garantito.
    Per gli abitanti di Jenin, in Cisgiordania, è più facile fare un viaggio a Dubai passando per l’aeroporto di Amman, in Giordania, che andare in spiaggia sulle vicine coste israeliane. Dall’altra parte, negli anni Ottanta, Nablus con la sua città vecchia e i suoi mercati era una tappa delle gite del sabato degli israeliani. Una giornalista americana al lavoro nella città racconta sorpresa di una domanda fattale da un ragazzino palestinese: “Perché tutti gli israeliani vestono di verde?”. Il verde della divisa militare.
    Per incontrare di nuovo palestinesi, Udi Razzin ha dovuto viaggiare negli Stati Uniti. E’ soltanto nella lontana New York, dove lo sceneggiatore e regista di 42 anni ha vissuto per molti anni, che si è seduto a discutere con una famiglia di Gaza, originaria di un luogo a pochi chilometri dal suo quartiere di Tel Aviv. Erano ex militanti, ex miliziani: “Sono stati gentili, ma l’atmosfera era tesa. Ci siamo incontrati e abbiamo discusso tre volte. Mi hanno perfino portato a una manifestazione anti Israele ma mi hanno chiesto di rimanere a distanza, non volevano farsi vedere assieme a me”. Da quell’incontro, nel 2005, è nata una sceneggiatura teatrale, “Il matrimonio del martire”. Prima di allora, i palestinesi che Udi aveva visto erano quelli incontrati durante il suo servizio militare, durante la Prima Intifada, sia a Gaza sia in Cisgiordania, e prima ancora gli operai arabi che lavoravano a Tel Aviv, nella stazione di servizio vicino all’autofficina di suo padre. “Ricordo ancora il loro pranzo: panna acida e pomodori nel tipico pane israeliano”, una semplice ciabatta che i palestinesi chiamavano in ebraico “Lehem Yehudim”, il pane degli ebrei, perché diverso dalle loro pagnotte piatte e tonde.

    Il tic ideologico in presa diretta
    Inconciliabili e lontani: così sembrano oggi questi due mondi, mentre Israele vota senza quasi mai occuparsi della questione palestinese, il processo di pace langue. A Guy Levy, quello delle molte domande e curiosità su Gaza, piace però ricordare un servizio televisivo del reporter israeliano Itai Anghel, di Channel 2. Era l’estate del 2006, quella del Mondiale vinto dall’Italia. Itai era andato in Cisgiordania a intervistare soldati israeliani e palestinesi sulle loro preferenze calcistiche. In gara quell’anno c’erano anche l’Iran, la minaccia numero uno alla sicurezza di Israele, e gli Stati Uniti, storico alleato di Gerusalemme. “Per quale squadra tengono secondo voi quei soldati israeliani?”, ha chiesto il reporter a un gruppo di ragazzini palestinesi: “Sicuramente gli Stati Uniti”. “Per quale squadra tengono secondo voi quei ragazzini palestinesi?”, ha domandato ai soldati: “Di certo l’Iran”. Sia i soldati sia i ragazzini palestinesi tifavano Brasile.