Guerra valutaria 2.0

Nelle Banche centrali torna il demone della politica interventista

Stefano Cingolani

Prima hanno fatto da supplenti, hanno sostituito i governi salvando l'economia mondiale dalla depressione. Adesso debbono funzionare da acceleratore. “E' cominciata una corsa globale per stimolare la crescita e svalutare le monete”, sostiene il Financial Times; e l'indipendenza delle Banche centrali è messa in discussione. Anzi, è minacciata direttamente, attacca Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Le ultime decisioni della Banca del Giappone, prese su esplicita indicazione del nuovo capo del governo, Shinzo Abe, fanno da spartiacque.

    Prima hanno fatto da supplenti, hanno sostituito i governi salvando l’economia mondiale dalla depressione. Adesso debbono funzionare da acceleratore. “E’ cominciata una corsa globale per stimolare la crescita e svalutare le monete”, sostiene il Financial Times; e l’indipendenza delle Banche centrali è messa in discussione. Anzi, è minacciata direttamente, attacca Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Le ultime decisioni della Banca del Giappone, prese su esplicita indicazione del nuovo capo del governo, Shinzo Abe, fanno da spartiacque. La Banca centrale di Tokyo ha annunciato ieri di aver aumentato dall’uno al due per cento l’inflazione obiettivo della propria politica monetaria, augurandosi di raggiungerlo il prima possibile. A questo scopo comprerà titoli pubblici equivalenti a 146 miliardi di dollari al mese senza limiti di tempo. L’irrituale comunicato congiunto Banca centrale-governo sottolinea la svolta. Addio divorzio, il principe e il tesoriere si ricongiungono.
    A Tokyo ha fatto esplicito riferimento Weidmann denunciando “la politicizzazione dei tassi di cambio” e il rischio di una guerra delle valute. Mario Draghi solo due settimane fa aveva chiarito che non spetta alla Banca centrale europea determinare il cambio. E ieri, parlando alla camera di commercio di Francoforte, ha insistito sul fatto che il risanamento delle finanze pubbliche “è doloroso, ma fondamentale. Per sostenere la crescita i paesi debbono diventare più competitivi”. La Bce è “ancora focalizzata sulla stabilità dei prezzi e agisce ancora in piena indipendenza”, ha detto Draghi. Poi però, subito dopo, ha aggiunto che oggi “non c’è alcun segnale concreto” di impennata dei prezzi. Piuttosto ha rivendicato le operazioni straordinarie di acquisto di titoli di stato, per ora solo annunciate, finalizzate a riallineare i tassi sui bond dei vari paesi dell’euro: “Scegliere la linea di un’inerzia passiva non era un’opzione”, ha detto, e questa volta il messaggio – sempre felpato – era proprio per i fautori dell’immobilismo, Bundesbank in primis.

    La supplenza delle Banche centrali ha un limite? I bilanci della Federal Reserve e della Bce sono raddoppiati, raggiungendo ciascuno i tremila miliardi di dollari. E’ servito a compensare la moneta distrutta dalla crisi del 2008, quindi non ha provocato un rialzo dei prezzi. Liberisti e monetaristi hanno messo in guardia dal rischio che si crei una nuova bolla liquida. E voci critiche si levano anche all’interno della Fed, dove Bernanke non è più il vate. O nella Banca d’Inghilterra dove Adam Posen dimessosi nell’estate scorsa, accusa Mervyn King di essere diventato un padre padrone.
    Da una parte i governi vogliono metterli sotto controllo e indirizzare le loro scelte, dall’altra è sempre più difficile gestire organismi tanto complessi: i banchieri centrali sono stracarichi di responsabilità. Le minute delle sedute del Federal open market committee nell’estate del 2007 mostrano che nessuno alla Fed aveva capito l’impatto della crisi dei subprime. E gli stessi che criticano l’eccesso di potere della Banca centrale, l’attaccano per scarsa preveggenza. Mentre la politica consuma la propria rivincita. Quando Bernanke annunciò che non avrebbe alzato i tassi finché la disoccupazione non fosse scesa al 5 per cento, i repubblicani lo accusarono di favorire la rielezione di Obama, nonostante sia considerato un simpatizzante del Grand Old Party.

    A non stupirsi più di tanto sono i keynesiani, per i quali la moneta in fondo è una convenzione (lo ha ricordato recentemente Paul Krugman), dunque mano alle presse finché non si trasforma in investimenti, posti di lavoro e crescita. E l’ex segretario al Tesoro di Bill Clinton e poi capo dei consiglieri economici di Barack Obama, Lawrence Summers, è tornato a battere su questo tasto di nuovo ieri sul Financial Times. Ma una cosa è certa: economie altamente integrate sono meno libere di agire. A porre loro un corsetto è il mercato mondiale dei capitali che reagisce rapidamente all’aumento dei titoli di stato sul mercato (soprattutto se a rendimento alto e sicuro), vendendo azioni e deprimendo l’economia privata. Dunque, con una politica fiscale limitata, la parola spetta alla politica monetaria. Ancora quantitative easing, altri acquisti di titoli privati non solo pubblici, altri sostegni alle banche. La Fed, la Banca del Giappone e quella d’Inghilterra condurranno la danza. La BuBa frena la Bce. Sarà un tema caldo al meeting annuale di Davos inaugurato ieri e che si apre ufficialmente oggi con il discorso di Mario Monti.