Perché i travagli dell'Ilva sono una benedizione per i concorrenti esteri

Alberto Brambilla

I concorrenti europei aspettano sulla riva del fiume il cadavere dell'Ilva di Taranto. Il primo impianto siderurgico d'Europa è stato posto sotto sequestro a luglio per “disastro ambientale”, quanto prodotto negli ultimi mesi costituisce il “corpo del reato” e quindi non può essere venduto. L'azienda è bloccata per una sentenza dalla magistratura tarantina, arrivata allo scontro con il governo che vuole la ripresa delle attività, come ha ribadito ieri da Taranto il ministro dell'Ambiente, Corrado Clini: “Se Ilva si ferma ed esce dal mercato non ci sarà risanamento degli impianti”.

    I concorrenti europei aspettano sulla riva del fiume il cadavere dell’Ilva di Taranto. Il primo impianto siderurgico d’Europa è stato posto sotto sequestro a luglio per “disastro ambientale”, quanto prodotto negli ultimi mesi costituisce il “corpo del reato” e quindi non può essere venduto. L’azienda è bloccata per una sentenza dalla magistratura tarantina, arrivata allo scontro con il governo che vuole la ripresa delle attività, come ha ribadito ieri da Taranto il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini: “Se Ilva si ferma ed esce dal mercato non ci sarà risanamento degli impianti”. Il governo tecnico aveva tentato di soccorrere l’Ilva con un decreto, approvato a larga maggioranza dal Parlamento, per conciliare la continuità aziendale con l’adeguamento degli impianti alle più stringenti norme ambientali, come chiesto dalla magistratura. I giudici nel dicembre scorso hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale, ritenendo che il provvedimento contrastasse con 17 articoli della Costituzione e fosse contrario alla decisione del tribunale di chiudere la fabbrica visto che i suoi fumi nuocciono alla salute dei cittadini. In caso il ricorso venisse accolto, il ministro Clini ha detto che non ci sarà “un piano B”. “L’obiettivo del governo e del Parlamento è garantire la continuità produttiva, il mercato internazionale dell’acciaio non aspetta la Corte costituzionale italiana”, ha aggiunto il ministro dell’Ambiente. Inoltre, due giorni fa i giudici hanno sospeso il giudizio sulla prima istanza di dissequestro dei materiali già prodotti (il “corpo del reato”) presentata dall’azienda, rivolgendosi ai giudizi della Corte costituzionale. L’azienda ha poi insistito presentando una seconda istanza, bocciata ieri. Secondo i rappresentanti dell’Ilva, i ricavi della vendita, circa un miliardo di euro, servivano a pagare i dipendenti. Si prospetta quindi, dice l’azienda, la richiesta di cassa integrazione per 6-8 mila lavoratori. Intanto, le merci giacciono nello stabilimento e si deteriorano col tempo.

    Più che l’arrivo di un cavaliere bianco dall’estero che rilevi gli impianti – ipotesi che al momento non trova conferma – il rischio è che gli stranieri approfittino delle difficoltà dell’Ilva per soffiarle i clienti. Il contesto generale è infatti quello di un mercato dell’acciaio in sofferenza in tutta Europa, perché i magazzini dei produttori sono pieni e le vendite non bastano a smaltire le scorte per via di una domanda che rimarrà – secondo le stime di Eurofer – debole anche nel 2013. Una situazione chiamata “sovracapacità produttiva”, cioè lo stesso male che affligge il settore automobilistico del continente. La chiusura dell’impianto tarantino, concordano analisti e imprenditori, consentirebbe dunque ai concorrenti stranieri di rifornire la filiera di competenza dell’Ilva, ovvero sia chi lavora l’acciaio più grezzo sia chi utilizza i laminati, come l’industria dell’auto. Si tratta di 5 milioni di tonnellate di “domanda” di acciaio all’anno che fanno gola. “Se un impianto chiude o si realizza una fusione, i competitor ne traggono vantaggio”, dice Annalisa Villa, corrispondente da Londra della testata specialistica Platts, di proprietà della McGraw-Hill. Le società di grandi dimensioni, come la tedesca ThyssenKrupp e la lussemburghese ArcelorMittal, o decine di altre aziende di calibro più ridotto, non solo trarrebbero profitto dal vuoto lasciato dall’Ilva ma avrebbero l’occasione di uscire dalla “trappola” della sovracapacità, o almeno di sentire meno la pressione che essa comporta. “E’ chiaro che in questa grave situazione tutti i produttori, non solo europei ma anche internazionali, brindano con bottiglie di Champagne”, dice al Foglio Antonio Gozzi, presidente di Federacciai. “E avrebbero anche buon gioco nel rimandare la vendita dei loro prodotti, come successo già un mese fa, per fare salire il costo della materia prima anche di 100 euro rispetto al prezzo attuale”, nota Gozzi, che riferisce infine lo “sconcerto” degli imprenditori europei per una decisione della magistratura “incomprensibile all’estero”.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.