Aridateci gli impresentabili
Il giorno dopo, Nicola Cosentino ha la rabbia tranquilla. La affida a una giornalista di Repubblica che riceve nella sua casa, a Caserta. Camino in pietra, molti soprammobili e bibelots, tante fotografie, pareti, divani e poltrone tappezzate di rosso porpora Ma niente rubinetti o maniglie d’oro: una normale casa di un potente notabile di provincia. Dice che Silvio, a cui ha dato tanto, l’ha pugnalato alle spalle: ha svenduto i discorsi sulle garanzie per un pugno di voti, si è messo a fare le pulizie di stagione, ultima forma di vanità.
Il giorno dopo, Nicola Cosentino ha la rabbia tranquilla. La affida a una giornalista di Repubblica che riceve nella sua casa, a Caserta. Camino in pietra, molti soprammobili e bibelots, tante fotografie, pareti, divani e poltrone tappezzate di rosso porpora Ma niente rubinetti o maniglie d’oro: una normale casa di un potente notabile di provincia. Dice che Silvio, a cui ha dato tanto, l’ha pugnalato alle spalle: ha svenduto i discorsi sulle garanzie per un pugno di voti, si è messo a fare le pulizie di stagione, ultima forma di vanità. Così, non gli parla nemmeno al telefono, sono ore che Silvio lo cerca ma lui niente, si fa negare. Dice che d’ora in avanti si occuperà esclusivamente del processo, di cui finora non aveva nemmeno letto le carte. Che per altro sono abbastanza istruttive da leggere: quattrocento e passa pagine di richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa e poca carne dentro. Solo un pentito che, di lui e di altri dirigenti campani del Pdl, dice che facevano parte del locale tessuto camorristico, “e me cojoni” avrebbe detto l’immenso Sergio Corbucci. Cosentino andrà a votare e voterà Pdl perché non può buttare via la passione di una vita ma vuole che non si conti più su di lui per risolvere problemi: il mister Wolf del centrodestra campano va in pensione. Gli telefona uno del comitato contro le demolizioni di case costruite senza licenza, lui risponde che no, non può fare nulla, vuole però che in giro si sappia che lui ha sempre gli abusivi nel cuore.
Marcello Dell’Utri non ha nemmeno provato a difendersi, non ha fatto la fila a via dell’Umiltà né la spola con Palazzo Grazioli, ha deciso di fregarsene di quel seggio sicuro che lo avrebbe tenuto ancora al riparo dai guai giudiziari che sta attraversando: si è chiamato fuori per non nuocere all’immagine del partito che ha contribuito a fondare e a cui è molto legato. Dice però che aver fatto fuori Nicola Cosentino è stato un errore. Un grave errore.
Vladimiro Crisafulli, per i compagni Mirello, è militante di lunghissimo corso, ha fatto tutta la trafila, Pci, Pds, Ds, ora democratico e senatore uscente, siciliano, cacicco di Enna. A lui, se possibile, l’hanno fatta ancora più sconcia. Non gli hanno impedito di presentarsi alle primarie, non si dica mai che a sinistra non si sia sinceri democratici, che non si lasci libertà di scelta alla base del partito e agli elettori. Se non che quando hanno visto che ha vinto, l’hanno segato. Di netto. Dieci anni fa, ben dieci, fu ripreso in pubblico mentre faceva vasa vasa con un avvocato che molto tempo dopo sarebbe stato in odore di mafia. Quella fotografia fece sì che Crisafulli fosse a sua volta indagato: un’accusa ridicola, prove insussistenti, lo stesso procuratore archiviò il caso, nessuno ha palle di vetro per prevedere con così tanto anticipo la brutta piega che qualcuno intende dare alla propria vita. Dopo qualche anno, nuova indagine questa volta per concorso in abuso d’ufficio per una storia di favori al comune di Enna. Non ha avuto ancora nemmeno un processo di primo grado, ma all’approssimarsi delle elezioni è finito nero su bianco sui giornali e attirato l’attenzione dell’inquisitore moderno. Lui non si rassegna all’idea che l’abbiano fatto fuori dopo la vittoria alle primarie, è arrabbiato, minaccia di mettere su una sua corrente nel partito e magari fuori.
Opinione pubblica vs Cosentino, Dell’Utri, Crisafulli più altri, sembra quasi l’incipit di un faldone giudiziario. L’opinione ha emesso condanna e pretende che siano cancellati gli impresentabili. Etimologicamente, l’aggettivo sta per qualcosa che non va mostrato, che non è in condizioni tali da essere visto dagli altri, perché carente nella sostanza e nella forma, contrario alla decenza o al decoro. Come calzini bianchi e scarpe di cuoio con i lacci, se oggetti. Se invece persone, rospi. Con un piccolo dettaglio che fa tutta la differenza: quando si sono presentati, il popolo sovrano li ha apprezzati. E votati massicciamente. E’ legittimo che in una repubblica parlamentare siano i partiti a fare le liste e a scremare le candidature, a tenere conto degli appetiti personali ma anche delle opportunità. Ma cosa è opportuno o non opportuno, oggi?
Sembra che il Cav. e il leader del Pd questa volta abbiano ritenuto opportuno rompere “lo specchio”: nell’“Allegoria del buon governo” del Lorenzetti è lo strumento che simboleggia la prudenza che tiene insieme passato, presente e futuro, la memoria e le ragionevoli speranze che il governo della polis deve saper trasmettere. Il leader del Pd non ha nemmeno sprecato il fiato: ha rifilato la lucidatura delle liste alla commissione di deontologia ed etica, “quelli là insomma, quelli di Berlinguer, lo sapete che noi abbiamo una specie di tribunale interno”. Altri lettori di dossier, altri spulciatori di carte, altri raddrizzatori di gambe, un’istanza di cui si conosce a malapena il nome di colui che la presiede e che non può che finire per essere percepita all’esterno come anonima e tremenda. Nel Pdl invece hanno parlato e trattato in tanti. Fino allo sfinimento. Alla fine è stato il fondatore a pronunciare la sentenza. Dicono che in quelle ore fosse molto su di giri, i sondaggi mostravano che le pulizie di stagione avrebbero sì fatto perdere voti qui e là al sud ma altrove avrebbero anche prodotto uno scatto di reni, una significativa impennata di credibilità: l’aumento di un punto e mezzo, forse due, delle intenzioni di voto su scala nazionale e quel che più conta in Lombardia, la regione decisiva per vincere o quanto meno pareggiare al Senato.
Ebbro per la vittoria che sente a portata di mano, Bersani sceglie di smentire il risultato di quel formidabile strumento di rinnovamento che pure sono state le primarie. Accecato dal miraggio di una rimonta che comunque difficilmente lo riporterà al governo, Berlusconi ha fatto di peggio: ha rimosso e contraddetto un lungo tratto di strada personale e politica. Far entrare la parola “impresentabile” nel dizionario della destra, darle cittadinanza e dignità nella sua cultura politica, significa dare forza proprio a quello che i suoi avversari in Italia e fuori d’Italia, l’establishment, i magistrati, i giornali ben pensanti, i grigi e i pigri , gli invidiosi e i mozzorecchi, insomma l’universo mondo dei moralisti biascicanti, hanno cercato invano di cucirgli addosso. Se si accetta l’esistenza della categoria degli impresentabili, degli improponibili, ne discende una sola domanda, irriverente: colui che è il numero uno in tutto e per tutto, nel bene e nel male, non è forse il primo e il più macroscopico degli impresentabili? Qualche dubbio sul fatto che avesse preso la decisione sbagliata, che avesse fatto entrare lo scecco nel regno del leone, tanto per dirlo con una barzelletta, deve essergli venuto.
E’ stata una decisione sofferta, ha detto che ha provato un dolore come se gli avessero tagliato un braccio, una mano. Sembra il linguaggio dell’inconscio, perché in questa storia qualcosa è stato davvero amputato. Lo spazio di democrazia e diritto, le garanzie, questo accade ogni volta che la politica prende paura, abbassa la testa, cede il passo. Così affondiamo sempre più in una palude in cui la morale varia in funzione della faccia, della zona geografica, del profilo antropologico, in cui il sud è peggio messo del nord, dove chi vive e fa politica a Casal di Principe o a Palermo corre più rischi di chi la fa a Cuneo o a Sondrio e se gli va bene deve convivere ogni giorno con pesanti sospetti. Succede che restiamo impassibili di fronte al fenomeno questo sì inquietante di magistrati che entrano in politica e magari poi tornano a rivestire la toga, seminando dubbi sulla qualità del loro operare, prima, durante e dopo. Sono forse loro, presentabili d’ufficio?
Oppure lasciamo che Di Pietro, persino logoro e alla deriva, dica qualsiasi cosa gli passi per la testa, per esempio che un governo di magistrati è migliore di uno di criminali. Non so ma non credo che vivere a Gotham City sia più intollerabile che vivere in una società in cui il sinedrio è sempre all’opera, ogni giorno che passa alza l’asticella della sensibilità pubblica e morale. In cui intellettuali di complemento si esaltano perché è tornata la questione morale e c’è stata una storica avanzata resa possibile dal coraggio di pochi che gridarono tre volte “resistere”.
Non finirà qui, i mostri vogliono continui sacrifici. Batteranno nuove piste, staneranno altra selvaggina, basterà sempre più la minima accusa di un procuratore incanaglito per cancellare il nome di un candidato e mettere fuori gioco un rivale, un avversario. Anche quelli che a questa mandata pensano di essersi salvati, i Giggino ’a purpetta, gli Scilipoti, i Razzi. Dopo che il leader si è battuto per diciannove anni, ha vinto il record mondiale di procedimenti giudiziari, ha resistito a centinaia di perquisizioni, a migliaia di articoli di stampa, insomma a una campagna mediatico-giudiziaria martellante e feroce, siamo improvvisamente tornati all’anno zero. Al clima di quei giorni in cui gli italiani sembravano tutt’uno con il pool di Milano.
Mettiamola provocatoriamente così: sarebbe stata cosa buona e giusta tenerseli tutti ben stretti. I loschi, i chiacchierati, i mascariati, i collusi. Gli indagati, i condannati. E magari anche qualcuno condannato in via definitiva, che non sia stato interdetto e che non debba starsene in carcere tutto il santo giorno a recitare il rosario e a rimettersi nelle mani del Signore. Ci sono i seggi elettorali, si vota e si presume che chi vota possa anche essere candidato. Offrire a un detenuto una via di fuga elettorale risuona oggi come una bestemmia eppure è nello spirito e nella lettera della Costituzione ed è uno dei legati migliori della Prima Repubblica: chi all’epoca combatté queste battaglie le vinse. Perché in Italia, per quanto chiasso facciano, i moralisti non sono mai riusciti a essere maggioranza culturale e politica. Rischiano di diventarlo oggi e per colpa dei dirigenti dei due maggiori partiti .
Sarebbe stata cosa buona e giusta tenerseli tutti stretti non per il pregiudizio contrario secondo cui chi delinque è sempre simpatico e merita fiducia. Avremmo dovuto tenerceli semplicemente perché non si possono lasciare nelle mani di questo sistema giudiziario, di questi giudici, questi tribunali, queste carceri. Avremmo dovuto tenerceli fino alla conclusione della madre di tutte le battaglie, quella per rimettere l’individuo al centro dello stato di diritto, imporre il giusto processo e la giustizia celere ed efficace.
“Ehi ragazzi cosa c’è nel nostro sistema giudiziario che fa sì che gente come voi voglia mandare tutti in galera? E’ patetico, dico sul serio. In carcere ho conosciuto decine di brave persone, uomini che non farebbero più male a una mosca, uomini che non si sarebbero mai più messi nei guai con la legge. Eppure grazie a voi stanno scontando lunghe pene e la loro vita è rovinata”. A parlare così è il protagonista di “The racketeer”, l’ultimo bestseller mondiale dello scrittore John Grisham. Certo è fiction ma ci sarà pure qualche ragione se un americano liberal, con ben radicati nella coscienza garanzie e diritti, si immedesimi in un uomo di colore ex avvocato di condannato a dieci anni per aver riciclato senza accorgersene il denaro sporco di un tizio che trafficava favori procurando puttane e cocaina ai congressisti di Washington. L’ex avvocato in carcere scopre chi e perché ha assassinato uno stimato giudice federale e la sua amante e soprattutto cosa conteneva la cassaforte ripulita a dovere: dieci milioni di dollari in lingottini d’oro puro al 99 per cento regalatigli da una compagnia mineraria di cui stava arbitrando un processo. Nella giustizia vista da Grisham non c’è scandalo a che un alto magistrato si faccia corrompere, a che dei delinquenti riescano a farsi liberare legalmente, intaschino la ricompensa, rubino la refurtiva e vivano a lungo felici e contenti. Chissà che penserebbe del sistema italiano, che annulla la presunzione di innocenza, nega il principio dell’individualità della responsabilità penale, si nutre di non poteva non sapere e di contiguità, dà alla parola del magistrato il crisma della sacralità. E mortifica la politica anche quando è legittima rappresentanza del popolo, esponendola allo spirito del tempo e alle ubbie dei moralisti da palasharp.
Avremmo dovuto tenerceli stretti. Anziché avvalorare l’idea che possa esistere una politica diversa da quella che si svolge ogni giorni sotto i nostri occhi. Con l’aria che tira Nicola Cosentino avrebbe dovuto rispondere con invettive e insulti, del tipo ma come si permette lei è solo un delinquente, a questo presidente del comitato “contro le demolizioni delle case costruite senza licenza”, che già la dizione in sé ha qualcosa di sublime. Invece non si comporta così, risponde da vero politico, come uno di quei democristiani del tempo andato che sapevano che un voto era un voto e non andava mai perso: mille rivoli fanno un fiume e per questo dicevano che un posto di postino non si nega mai a nessuno.
Anche Abramo Lincoln ha trafficato, ricattato, corrotto, offerto posti e prebende, puntato su banderuole e voltagabbana, pur di far approvare il tredicesimo emendamente della Costituzione, anche lui ha avuto bisogno degli Scilipoti del suo tempo per far abolire la schiavitù.
La politica è stata sempre e sotto ogni cielo affare per bestie da soma, per uomini con peli sullo stomaco e pelle da rinoceronte: per avamposti alle frontiere tra legale e illegale, per spalatori di merda. Diventa buona e grande se si accompagna alla lungimiranza, se si vede lontano e ci si prefiggono ambiziosi obiettivi. Sennò è solo tran tran che si riproduce nella mediocrità ma non per questo può essere condannata. Gli onesti, quelli che con orgoglio sfoggiano un palmo pulitissimo della mano, sono sempre stati una calamità, dei coglioni inutili a sé e alla comunità che si ripromettevano di servire.
Il Foglio sportivo - in corpore sano