Eclisse DiCaprio
Voglio parlare del nulla e comportarmi come un idiota, girare con gli amici, eclissarmi, annoiarmi, migliorare un po’ il mondo e fare il bene del pianeta, ha detto Leonardo DiCaprio senza citare il solito Al Gore, suo compagno di militanza verde, ma senza neppure alludere ai precetti di vita ecologica che fanno assomigliare alcune sue interviste ai proclami di un grillino candidato alle parlamentarie: chilometro zero, spreco d’acqua zero, frugalità a mille, petrolio vade retro, riciclo e macchine elettriche – e non importa a nessuno che sia vero o vero soltanto a metà, ché è l’intenzione quella che conta.
Voglio parlare del nulla e comportarmi come un idiota, girare con gli amici, eclissarmi, annoiarmi, migliorare un po’ il mondo e fare il bene del pianeta, ha detto Leonardo DiCaprio senza citare il solito Al Gore, suo compagno di militanza verde, ma senza neppure alludere ai precetti di vita ecologica che fanno assomigliare alcune sue interviste ai proclami di un grillino candidato alle parlamentarie: chilometro zero, spreco d’acqua zero, frugalità a mille, petrolio vade retro, riciclo e macchine elettriche – e non importa a nessuno che sia vero o vero soltanto a metà (come fa DiCaprio a riciclare, tra un aereo e un grande albergo?), ché è l’intenzione quella che conta. Poi c’e l’omonima fondazione, quella che l’attore ha messo in piedi proprio in virtù della sua anima ecologista, e pazienza se gli ecologisti thailandesi ancora gli rinfacciano i presunti danni ambientali fatti dalla sua combriccola di amici e colleghi durante le riprese di “The beach” a PhiPhi Island, nel lontano Duemila, primo anno del nuovo millennio e primo intoppo nell’impegno verde, matto e disperatissimo del giovane Leonardo.
“Voglio prendermi una lunga, lunga, pausa dal cinema”, ha detto DiCaprio a Berlino, senza davvero motivare la sua mossa di allontanarsi dalla scena nel momento della massima esposizione, con tre film di tre grandi registi appena finiti alle spalle: nell’ultimo anno ha lavorato con Quentin Tarantino, Baz Luhrmann e Martin Scorsese; l’anno prima si è fatto dirigere da Clint Eastwood in “J. Edgar”, invecchiato e imbruttito nel ruolo del più famoso e controverso direttore dell’Fbi – e DiCaprio gli ha dato un’anima ambigua e fragilmente prepotente che ha mandato in visibilio il pubblico e parte della critica, senza per questo fargli ottenere un Oscar (ma perché non glielo danno?, perché fanno fatica persino a candidarlo?, si chiedono i fan dopo un decennio di immense sfide attoriali del loro beniamino, davanti alla lista dei “migliori attori protagonisti” della stagione).
E però non c’è prova che sia l’ennesima mancata candidatura all’Oscar il motivo del passo indietro annunciato dal fuggitivo Leonardo, uno che scappa volentieri anche da un parterre di studenti universitari a Tor Bella Monaca (l’ha fatto qualche anno fa, ma solo dopo aver tramortito i fan italiani con una lezione sulla Terra a un passo dallo sfacelo), e anche dalle feste troppo piene di scocciatori, dalle quali di solito entra ed esce dalla cucina (accadde sempre a Roma, dopo l’anteprima di “The departed”). Non c’è prova che sia l’ambizione mai sazia la ragione dell’eclissi di “Leo”, come lo chiama il suo amico e mentore Robert De Niro, incontrato nei primi anni Novanta durante il provino per “Voglia di ricominciare”, con il giovane DiCaprio che voleva essere all’altezza del suo mito, l’attore di “Fuga di mezzanotte”, film visto una domenica con suo padre – allora recitare è un mestiere, si era detto quel giorno il ragazzo, oggi votato alla massima “siamo pur sempre dei clown a noleggio”.
Dopodiché Leonardo DiCaprio, al provino con De Niro, aveva sbagliato tutto, recitando sopra le righe per il ruolo di un ragazzino timido con patrigno autoritario, e De Niro gentilmente gli aveva detto “potresti tenerla un po’ più bassa?”, la foga interpretativa, e DiCaprio aveva capito che per fare non c’era bisogno di strafare, e aveva ottenuto la parte con la gratitudine di chi, come dirà anni dopo, “sa che per un mese o due potrà osservare il meccanismo sommerso che governa la genialità di Bob”. Ne uscirono con un sodalizio professionale e con sempiterna reciproca stima, tanto che non hanno mai smesso di frequentarsi: capita che DiCaprio faccia discorsi per i premi alla carriera di De Niro, commuovendosi due o tre volte, e che DeNiro dia a DiCaprio l’investitura di erede ufficiale – “lui è quello che mi sostituisce nei film di Scorsese”, ha detto Bob scherzando (ma neanche tanto). Capita pure che DiCaprio si stufi degli amici giovani e caciaroni che si trascina dietro in tutto il mondo, vestiti come lui, con pantaloni alla pescatora, ciabatte di gomma e cappello da baseball, e si rifugi in un’isola greca tra De Niro e John Travolta, vecchie e nuove glorie tutte insieme al tavolino scalcagnato di una taverna a Skiathos, tra inglesi rubicondi, birre e insalate di cetriolo – la cura preventiva prima di ributtarsi nella solita vacanza su yacht a Portofino o a Saint-Tropez, con la solita bellissima fidanzata bionda al braccio, sempre più bionda, sempre più giovane e sempre meno duratura man mano che DiCaprio passa, negli anni, dalla top model Gisele Bundchen alla top model Bar Rafaeli all’attrice Blake Lively alle non troppo famose Erin Heatherton e Margot Robbie, l’ultima ragazza avvistata alla sua festa di compleanno (a novembre) e a New York (pochi giorni fa).
L’ha detto: mi sento svuotato, sono stressato, ho bisogno di stare così, cioè a bordo piscina come nelle ultime foto da un albergo di Miami, seduto su un divano da spiaggia con due amiche accanto, ma sempre con un cellulare in mano, pensieroso come non mai accanto a un trespolo ingombro di cocktail colorati. (La piscina è una costante della sua vita, non solo privata: attorno e dentro a una piscina, infatti, nel 1996, è nato il “divo” DiCaprio, scelto da Baz Luhrmann per il ruolo di Romeo nel modernizzato e visionario “Romeo+Juliet” – e DiCaprio e Claire Danes, in quella piscina, sembravano isolarsi dal fracasso delle famiglie in lotta, come per effetto di un’improvvisa sordina, dopo essersi guardati attraverso un muro d’acqua, al di là e al di qua dei vetri di un acquario pieno di serafici pesci tropicali). Adesso, per Di Caprio, c’è di nuovo una piscina e di nuovo Baz Luhrmann, con cui ha appena girato il remake de “Il Grande Gatsby”, nel ruolo che fu di Robert Redford ma con la sua faccia. Una faccia che pur non essendo, sulla carta, bella o espressiva come quella dei grandi attori anni Settanta, e anzi conservando negli anni le caratteristiche di un volto anche un po’ da bamboccio, riesce sempre a diventare altro da sé, e sempre con risultati incredibili.
Ed è questo il punto, il problema e il segreto del successo di Leonardo DiCaprio. Perché DiCaprio non aveva un aspetto che colpisce. Carino, sì, ma normale. E non aveva nemmeno una voce che colpisce (per anni ha avuto il timbro e il tono del ragazzino californiano da telefilm). Non aveva l’aria maledetta né, tantomeno, la voglia di essere maledetto. Ha sempre detto: “Non mi troverete mai riverso nel mio vomito davanti a un locale o morto di overdose”, e pazienza se tutti, a sentire quelle frasi poco delicate, pensavano subito a River Phoenix, giovane mito dei teenager anni Novanta, mito anche per il DiCaprio alle prime armi: River il ragazzo-attore che muore dopo il successo di “Stand by me”, con la promessa di una bella carriera davanti a sé, in una notte dell’autunno 1993, davanti a un club, dopo una serata di eccessi uguale a tante altre serate di eccessi – e il caso volle che la parte di Arthur Rimbaud in “Poeti dall’inferno” poi andasse al suo alter ego non scapestrato, il DiCaprio che anche oggi, quando eccede, al massimo si gonfia come chi ha bevuto troppi spritz e mangiato troppi panettoni a Natale. E insomma DiCaprio è diventato DiCaprio a dispetto delle carte che aveva in mano all’inizio, non essendo baciato dal carisma stropicciato e senza sforzo di chi buca lo schermo soltanto con l’ingresso in scena – diverso è il suo caso, infatti, da quello di Johnny Depp, collega (poi amico) in “Buon compleanno Mr. Grape” di Lasse Hallstrom, film del 1993 e prima prova formidabile di un DiCaprio poco più che adolescente nel ruolo del fratellino ritardato di Depp, sullo sfondo di una provincia americana desolata: carovane di camper, distese di grano, conformismi senza pietà e famiglie che stanno in piedi non si sa come, tra padri suicidi e madri che mangiano fino a diventare come “Alice nel paese delle meraviglie” quando, per incantesimo, ingrassa al punto di non poter più uscire di casa, se non con un piede che fa capolino dalla finestra.
Dopo “Buon compleanno Mr. Grape”, cosa poi sempre più rara, l’Academy Award candidò DiCaprio come miglior attore non protagonista. Aveva studiato movenze e tic impercettibili di un ragazzo problematico come l’Arnie del film, il giovane Leonardo. Aveva cercato di avvicinarsi alla “relazione” tra quei due fratelli, sentendosi “davvero parente” di Johnny Depp. Non gli veniva naturale quasi nulla, dirà poi, in quello come in altri ruoli meno delicati, ma aveva deciso di farcela. Farcela davvero e non per caso, come quando, da bambino, imitava gli zii e faceva ridere tutti. Non pensava che la svolta si sarebbe presentata dopo pochi anni, sotto forma di transatlantico che affonda. Non verranno dal nulla né per solo colpo di fortuna, il “Titanic”, le copertine e la grande amicizia con Kate Winslet (DiCaprio ne parla sempre benissimo e l’ha accompagnata all’altare del suo terzo matrimonio, dopo la separazione dal regista Sam Mendes; Winslet ricambia con grandi abbracci in pubblico e dichiarazioni commosse di stima in tv. Qualcuno periodicamente ci ricama sopra, ma poi DiCaprio ricompare sempre in pubblico con ragazze irrimediabilmente diverse dalla molto intellettuale amica Kate).
Non era ancora l’attore maturo e inquietante di “The Aviator”, “Gangs of New York” e “Shutter island”, DiCaprio, ai tempi del “Titanic”, e, forse anche per colpa della musica smielata e della romanticheria che grondava dal film, ha faticato molto a togliersi di dosso l’immagine del “buono”, l’artista squattrinato da terza classe che si lascia morire nell’acqua gelida per far vivere l’amata incontrata tra i ricchi del primo ponte. C’era già in nuce, sulla nave del melodramma, il DiCaprio sottostante, quello che con la guida di Martin Scorsese arriverà a scandagliare la propria psiche alla ricerca di una follia non così folle, e di un’ossessione che può trapelare, senza preavviso, dietro ogni normalità, fino a confondere i livelli, in un gioco in cui la mente si perde senza speranza. C’era già, sul “Titanic”, nascosto sotto la faccia ancora infantile del Leonardo ventitreenne, l’attore che saprà calarsi con testardaggine in personaggi sempre sospesi tra bene e male (persino nell’unica commedia interpretata, “Prova a prendermi” di Steven Spielberg, storia vera di un falsario ragazzino, genio che si fa beffe degli adulti anni Cinquanta).
“Ti osserverò per estrarre un metodo”, diceva DiCaprio a De Niro durante le riprese di “Voglia di ricominciare”, quando ancora Leo non era credibile come attore drammatico, efebico e sorridente com’era – e invece poi si è scoperto che la sua faccia d’angelo poteva diventare diabolica, indifferente, beffarda, crudele o disarmata come quella dei vincenti-perdenti che piacciono a Tom Wolfe, e che DiCaprio ha più volte interpretato. E si capisce la crisi di oggi, con totale rigetto del set, guardando indietro ai dieci anni in cui Leo, trentenne, ha interpretato “cattivi” che si redimono senza redimersi (“Blood diamond”), sognatori senza più sogno (l’Howard Hughes di “The Aviator”, trionfale in pubblico e fobico nell’animo) e cinici senza più cinismo (come il suo Edgar Hoover, stretto tra spregiudicatezza e ripensamento, forza ostentata e debolezza sommersa, guerra totale e quiete apparente, decisionismo e incapacità di accettarsi per quello che si è). E si capisce come qualcosa, in lui, possa essersi inceppato proprio adesso, nel momento in cui la maturità di attore si fa tangibile, proprio all’intersezione tra grandi film di grandi registi, e alla fine di una metamorfosi incessante da un uomo all’altro, uomini tutti diversi e tutti ugualmente sfaccettati: un personaggio si introduce nei sogni altrui, impianta idee nelle menti altrui e viaggia in un mondo onirico con il dubbio di non poterne più uscire (in “Inception” di Christopher Nolan); l’altro dà corpo alla decadenza del Mississippi schiavista alla vigilia della Guerra di secessione – un mondo eccessivo, annoiato, sguaiato e inconsapevole dell’imminenza della fine (in “Django Unchained” di Quentin Tarantino, nel ruolo del latifondista Calvin Candie). Poco si sa dei film di Luhrmann (Gatsby) e Scorsese (“The wolf of Wall Street”), non ancora sugli schermi, ma DiCaprio è comunque al centro della tensione emotiva, come grande illuso-disilluso dal sogno americano e come agente di Borsa che finisce in carcere con l’accusa di frode e corruzione, e rifiuta di collaborare per vent’anni.
Ma per DiCaprio la prigione, ora, ha a che fare con il sentirsi “drenato”, “bruciato”. Non sono i quarant’anni che si avvicinano né gli amici che vivono lontani (lui se li porta dietro, gli amici, anche se non sono tutti attori come Tobey Maguire) né le inquietudini sentimentali che gli fanno dire e fare cose da bamboccione (la mamma prima di tutte le altre donne, i figli no grazie, le ragazze finché ci si diverte). Il DiCaprio fuggitivo di oggi nasce dal DiCaprio calvinista di ieri (si sa che sono di origine tedesca, ha detto). “Con la volontà ci arrivo”, ha pensato per tutti questi anni l’attore che nel tempo libero fingeva di fregarsene, del giudizio altrui, affogando l’ansia nel nulla del cazzeggio – “mi piace invitare gente a casa ma non posso farlo spesso, sono stato fuori per un anno intero”, ha detto, facendo intravedere una serie infinita di suite, barche di rapper e locali tutti uguali, ma si capiva che il problema era un altro, per esempio riuscire a non sentirsi sempre il buono del “Titanic”, ora che nessuno può più chiedere “ma DiCaprio è un bravo attore?”. Perché poi DiCaprio ha l’ansia tipica di chi ha avuto successo senza avere il marchio della sofferenza alle spalle (a differenza di altri suoi colleghi che dicono di essere cresciuti in famiglie di pazzi o in mezzo all’indifferenza), e senza il tormento irrisolto che può fare di un adolescente un talento naturale della recitazione. Nel passato di “Leo” ci sono, sì, i sobborghi di Los Angeles, ma non c’è il degrado che raccontano di aver vissuto tanti attori e attrici arrivati alle porte di Hollywood dopo una fuga da casa a sedici anni. Ci sono una madre e un padre separati, nella sua vita, ma ancora amici nell’interesse del figlio. C’è una scuola decente frequentata fino alla fine (tre ore di traffico per arrivarci) e ci sono i conoscenti un po’ hippy di un papà fumettista (la leggenda dice che a casa DiCaprio cenasse, a volte, Charles Bukowski). Non ci sono buchi neri, nella storia del divo Leonardo, chiamato così per illuminazione davanti a un quadro di Da Vinci, in un momento di “sindrome di Stendhal” vissuto da mamma Irmelin a Firenze). Non ci sono matrigne cattive, fratelli drop-out, nonni scapestrati, manie autodistruttive, solitudini affogate nel bicchiere, dietro le spalle di Leonardo DiCaprio. E per questo, forse, c’è spazio per la normale inquietudine di chi, crescendo, non riesce mai a capire se e quando è davvero cresciuto.
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