Il capolavoro della prosa italiana

Io rido e il rider mio non passa dentro

Stefano Di Michele

Fu il suo ultimo sogno – dopo quell’incubo senza fine che sempre è una tristezza quotidiana, “da tutti sfuggito e con occhi torti guatato”. Lì, intorno al letto, i pochi amici che, loro no, loro pochi però, non lo guardavano torvo e ancora lo fissavano negli occhi: Filippo Strozzi, Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni, Francesco del Neri, Jacopo Nardi… Niccolò Machiavelli raccolse le forze e raccontò. Raccontò che aveva in sogno incontrato due gruppi di persone. Il primo di cenciosi, di sudici, morti di fame, miserabili, pazzi. Domandò chi fossero. Gli dissero che erano i beati del Paradiso, come annunciato dalle Scritture.

    “E li uomini hanno meno respetto ad offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai” (Niccolò Machiavelli, “Il Principe”).

    Fu il suo ultimo sogno – dopo quell’incubo senza fine che sempre è una tristezza quotidiana, “da tutti sfuggito e con occhi torti guatato”. Lì, intorno al letto, i pochi amici che, loro no, loro pochi però, non lo guardavano torvo e ancora lo fissavano negli occhi: Filippo Strozzi, Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni, Francesco del Neri, Jacopo Nardi… Niccolò Machiavelli raccolse le forze e raccontò. Raccontò che aveva in sogno incontrato due gruppi di persone. Il primo di cenciosi, di sudici, morti di fame, miserabili, pazzi. Domandò chi fossero. Gli dissero che erano i beati del Paradiso, come annunciato dalle Scritture: “Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum caelorum” – il Regno dei Cieli nelle mani dei poveri in spirito. Nel secondo vide invece personaggi di nobile aspetto, aria severa, in vesti curiali e reali. Riconobbe Platone, Plutarco, Tacito. Domandò anche a loro chi fossero. I dannati dell’Inferno, risposero: “Sapientia huius saeculi inimica est Dei” – siccome è la sapienza del mondo a Dio nemica. I due gruppi sparirono, nel sogno di Machiavelli si fece il vuoto. E una voce allora gli domandò con chi volesse andare – ora che dalla sua terra di desolazioni e delusioni stava per sfuggire. “Rispose che preferiva andarsene all’Inferno coi nobili spiriti a ragionare di stato piuttosto che in Paradiso con quei cenciosi di prima” (Roberto Ridolfi, “Vita di Niccolò Machiavelli”). Poi  “morì malissimo contento, burlando”, e suo figlio Piero a uno zio avvocato in Pisa scrisse che prima “lasciossi confessare le sue peccate da frate Matteo” – e se burla fu il sogno ultimo di Machiavelli, burla pare quasi la sua estrema confessione, l’incerto consegnarsi là dove né in vita né in sogno pensò mai di andare, ché questo frate Matteo un giorno per sbaglio aveva gettato un Crocifisso in un pozzo e per questa “insigne balordaggine” era noto in tutta  Firenze, più che per opportune virtù spirituali. “Gli si sarebbe perdonato facilmente di avere accattato dai Medici qualche umile ufficio; ma non gli si perdonava quella sua grandezza che lo faceva dissimile agli altri anche nei costumi, ardito nelle parole, scoperto nei vizii”, ha scritto Ridolfi nella sua bellissima biografia. E Giuseppe Prezzolini, che pubblicò nel 1927 la sua “Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino”, così descrive  l’avvicinarsi della fine: “Il suo disprezzo per gli uomini, e per se stesso, cresceva, crescendo il suo male. La morte di cui egli s’era accorto tutto d’un tratto e che gli abitava dentro, e che non poteva più cacciare indietro, ora egli prendeva gusto ad aprirgli tutte le vie perché si mostrasse all’aperto e vincesse tutte le sue ultime resistenze. Con acutezza e perspicacia, quale mai aveva avuto nella sua vita, affondava lo sguardo nel suo male e provava un crudele piacere a straziarsi, a condannarsi, a farsi morire. Col suo codice del successo in mano condannava tutte le proprie speranze…”. Era “Il Principe”, questo “suo codice del successo” – che però né a lui servì in vita, né il destinatario mai lo apprezzò. E chissà se mai lo lesse o chissà se almeno tra le mani una volta lo strinse.
    “… e ho composto un opuscolo de Principatibus…”, scriveva cinquecento anni fa – quattordici prima della sua morte – Machiavelli. Lo aveva dedicato – questo lavoro composto tra il luglio e il dicembre del 1513, tra il sole che ardeva i campi e il gelo che inceneriva il paesaggio, mentre Firenze affondava nel grigio, all’orizzonte, “ridutto in villa e discosto da ogni viso umano” – tre anni dopo la scrittura, a  Lorenzo de’ Medici, “ad Magnificum Laurentium Medicem”, nipote di Leone X sontuosamente regnante, solo pallido riflesso parentale del Magnifico Lorenzo di qualche decennio prima. Un tentativo di Machiavelli per rientrare nelle grazie della potente famiglia, “desiderando io adunque offrirmi alla vostra Magnificenzia”, tornata al potere dopo gli anni della Repubblica fiorentina. Affidò il manoscritto a Francesco Vettori, amico suo e amico di Lorenzo de’ Medici, perché glielo presentasse. Chissà se lo fece davvero, questo Vettori, “non sia uomo che sappi aiutare gli amici”: festoso e inutile, o chissà se le cose andarono poi come Vettori raccontò: lui che porge il libro all’erede della casata “in tempo che gli fu donato una coppia di cani da giugnere, e fece più grata cera, e più amorevole rispose, a quel che i cani gli aveva dato che a lui”. E così il pallido principe mediceo, “se Vostra Magnificenzia dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi bassi, conoscerà quanto io indegnamente sopporti una grande e continua malignità di fortuna”, con indifferenza accolse “Il Principe” che a impensabili altezze s’illudeva d’innalzarlo, e gli occhi piuttosto volse, Sua Magnificenzia,  verso la nuova coppia di cani da caccia – ancora un viso che si discostava dalla disperazione di Machiavelli. Uno scritto destinato a durare nei secoli – di immoralità accusato, di grande intelligenza sempre riconosciuto, di crudeltà zeppo, di ferocia e di sarcasmo e di sangue grondante: così sempre qualcuno ha detto, e l’opposto altri ha sostenuto – fu battuto dallo scodinzolare frenetico di due festose bestie da lanciare alla conquista di fagiani e volpi. Alla sue disgrazie Machiavelli doveva “Il Principe” – al suo essere condannato a starsene lontano da Firenze, imprigionato nella sua stessa intelligenza, a buona ragione “presuntuoso”, i colpi di corda ricevuti in cella che facevano meno male della dimenticanza in cui era caduto, i fantasmi serali dei grandi del passato e le giornate all’osteria a discutere con il beccaio, a bestemmiare con il mugnaio, partite a sbaraglino sognando di condurre la partita per far grande l’Italia – lui a evocare il Principe, sua speranza e ora solo sua ossessione,  quegli altri a scatarrare sulle bocce. “Ora ti faccio correre come fece il Valentino al Petrucci!”. “Ma di che Valentino tu mi vai contando! Tira meglio, corbello!”, e ingiurie e  urli, “il più delle volte si combatte un quattrino e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano”. Il salvacondotto per una possibile resurrezione che poi mai avvenne, quel libro, il suo scrivere al mondo (del potere, delle guerre, della storia) che a lui non più scriveva, da quella “villa” detta dell’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina, “sendomi io ridutto a stare in villa per le avversità che ho avuto e ho, sto qualche volta un mese che io non mi ricordo di me”. Evocò il Principe ideale, così che l’ombra del Valentino sempre lo avvolse mentre lui cercava d’illuminarla, e poi invece sempre e solo incontrò – a parte il Borgia, sempre il Borgia, modello e fantasma persecutore, capace di ricevere luce nelle sue pagine dallo stesso sangue fatto versare – figure molli, vili, mediocri: né alla grandezza sapevano lavorare né alla loro stessa grandezza osavano pensare. Restò crocifisso ancora e praticamente per sempre nel suo ozio forzato “che doveva dargli tanta infelicità e tanta gloria”. Postuma, però.

    Ed eccolo, il figlio del Papa Alessandro, l’ex cardinale mutatosi in capo guerriero – altro vermiglio toro catalano scatenato lungo la penisola, dopo quello finito, incensato e incestuoso e scandaloso, sul trono di Pietro – apparire nel capitolo VII del libro di Machiavelli per quasi poi del tutto dominarlo: “Et era nel duca tanta ferocia e tanta virtù, e sì bene conosceva come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti, che, se non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe retto a ogni difficultà”. E ne scrisse anche in una lettera, dopo averlo incontrato a Imola nel 1502: “E’ un signore molto splendido e magnifico, nelle armi tanto animoso, che non è sì gran cosa che li paia piccola; e per la gloria e per acquistare stato mai si riposa, né conosce fatica o pericolo: giunge prima in un luogo, che se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a’ suoi soldati, ha cappati e’ migliori uomini d’Italia; el qual cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunte con perpetua fortuna” – quasi come l’avrebbero visto, secoli dopo, i dannunziani sfarfalleggianti e vacui e ciarlieri del primo Novecento. E “figlio della Fortuna” a Machiavelli appariva il Valentino – ed è la Fortuna che permette di superare ogni cosa, pur se la Virtù anche al Principe occorre per allestire tutti “i ripari e gli argini”, così da difendere con forza e saggezza il principato. Lo aveva visto risalire, anno dopo anno, travolgendo il mosaico degli statarelli a nord di Roma – abbattere gli Sforza, i Malatesta, i Montefeltro, razzolare città dopo città, Cagli e Camerino, Ceri e Sutri, Orvieto e Piombino, Imola e Fano, compattare la Romagna, pur con crudeltà, necessaria crudeltà – chiamare Leonardo da Vinci, far trovare nel cuore della città il cadavere tagliato a metà di un suo legato troppo prepotente – “lo fece mettere una mattina, a Cesena, in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno et uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupiti”. Annota Ridolfi: “Gli piace come artefice e simbolo di uno stato forte; gli piace per la infaticabile assiduità ai negozi e alla guerra, per la temerarietà e la prudenza, la segretezza e la dissimulazione, il maturo consiglio e l’esecuzione fulminea; la sua fortuna lo abbaglia, e più la sua fede nella fortuna. Lo studia, lo scruta, ne scrive a Firenze le parole, i fatti se li imprime nell’animo…”. E Prezzolini: “Era una canaglia fresca, sulla quale si poteva contare per quelle azioni che illustrano eternamente gli uomini: migliore di tutte le canaglie marce che si vedeva d’intorno”. E Machiavelli a rievocare e ad avvertire: “Era tenuto Cesare Borgia crudele; non di manco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace et in fede”. Poi anche il Borgia dipartirà dall’orizzonte italico, per andare a mestamente crepare in qualche assedio in Spagna, principalmente anche perché babbo Papa Alessandro se ne era da questo mondo poco serenamente dipartito (o da questo mondo poco cristianamente fatto dipartire) “cinque anni che elli aveva cominciato a trarre fuora la spada”, e “così, poco a poco questo Duca sdrucciola nello avello” – altro nulla, dopo tanta folgore. Ma intera la trama dei XXVI capitoli del “Principe” quasi sempre pare inseguire quel fantasma inquieto e già dimenticato, polvere spersa altrove – tra la polvere secca dell’eremo campagnolo del dimenticato Machiavelli, che qualcosa pietiva, qualsiasi cosa, qualunque cosa mutasse la noia di ogni giorno,  un po’ di grazia e di pietà da quei “signori Medici”, “se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso”. E nonostante la fine del progetto del Valentino e dei suoi sogni, un modello da imitare restava: “Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo; anzi mi pare, come ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’arme d’altri sono ascesi allo imperio. Perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la malattia sua” – la Fortuna (o la sfortuna), ancora. Sempre. Libro empio, pensieri che sovvertivano quelli radicati da secoli, fomentatore del male – da certi  lo stesso autore considerato “maestro del male”, ma forse meglio maestro di logica, che della crudeltà non condannava la crudeltà stessa, ma se a fin di bene o a fin di male fosse svolta – e a leggere attentamente, il paradosso della crudeltà che a una più grande e futura crudeltà sbarra il passo, come logica si risolve, logica inattaccabile e persino benefica. “‘Il Principe’ trovò, quando cominciò a circolare in copie manoscritte, e quando fu stampato, pochissimi lettori intelligenti che ne capissero il valore. Trovò, invece, tanti nemici che lo consideravano un’opera maligna, ispirata dal diavolo in persona in cui uno scrittore empio insegna al principe come conquistare e conservare il potere per mezzo dell’avarizia, della crudeltà e della simulazione, servendosi cinicamente della religione come strumento per mantenere i popoli docili” (Maurizio Viroli, “Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli”). Accuse che il diretto interessato si sentì rivolgere anche in vita, così che una volta replicò a un suo accusatore: “E’ vero che io insegnai ai tiranni come si conquista il potere, ma insegnai anche ai popoli come li si spengono”.

    Con tutte le sue dissertazioni sulle milizie e sui vari principati, sulle virtù e sulle guerre, sulla grandezza degli antichi e sugli errori dei contemporanei, sulla maestà non meno che sulla dannosità della chiesa cattolica, assenza di pietà con assenza di pena, “è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua”, labirintico gioco di rimandi e specchi e convenienze, “che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile”, stomaci forti e menti acute, “si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà et il bene essere suo”, dove alla fine proprio il vizio, ciò che vizio chiamiamo, pare tenere in bilico, con la sua assenza di piccola morale,   la possibilità di una parvenza di pietà e pace futura – “Il Principe” è il libro che tra le due vite di Machiavelli si pone: come lo studio di una formula segreta per provare a ricomporre la seconda, disperata, dentro il perimetro della prima, adesso finita. E dunque, il libro considerato il capolavoro letterario del cinismo politico nacque da una sola e grande e umanissima disperazione – quella di un genio stanco e umiliato che tentava di tornare al centro delle cose: della vita, la sua, forse. Spiegava al Principe cui “Il Principe” era dedicato – che cieco non vide, e sordo non udì – che “per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo”, e quello, Sua Magnificenzia, le uniche bestie che praticò furono cani al guinzaglio e lepri spaventate. Sapeva Machiavelli argomentare – benissimo: con intelligenza sua di pensiero, con straordinaria grazia letteraria  – che quel suo Principe ideale doveva da due altre bestie prendere esempio, “pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi”, eppure malissimo ormai lui pareva districarsi: né più volpe capace di liberarsi dai lacci, né leone capace di impensierire i lupi medicei tornati al potere.

    Di quella vita che prima fu, dunque, era piena e prigioniera la sua testa. Galleggiavano ancora nell’Arno le ceneri del Savonarola, frate sublime e pazzo, impiccato e arso in piazza della Signoria, nel maggio del 1498, quando il giovane Niccolò di Bernardo Machiavelli viene nominato segretario della Seconda Cancelleria, 192 fiorini di suggello (di minor valore rispetto a quelli d’oro) come stipendio. Durò fino al 1512, quando i Medici ripresero il potere. Furono gli anni dei viaggi, degli incontri: la Francia e il Vaticano e la Germania Magna, dal Papa al re alla luce effimera del Cesare Borgia, cento città, quelle amiche e quelle ribelli alla Repubblica fiorentina, mille incontri, infinite legazioni e commissarie, rapporti lettere e missive – ai “Magnifici Domini” del Consiglio dei Dieci da “servitor, Niccolò Machiavegli, Secretario”. Un continuo andare, tornare, parlare, guadagnare giorni e mesi, oppure giorni e mesi bruciare, parole e parole e parole – sussurrate, declamate, scritte. Via per intere stagioni, via per un solo giorno – tutto un bruciare in azione, un accorrere frenetico, se accorrere si doveva. A distogliere un nemico ormai alle porte, a organizzare armate per non mettersi nelle mani di mercenari o di milizie ausiliarie. “Arrivai qui a Poppi sabato sera, e domenica scrissi gli uomini di questa potesteria, e ieri quelli di Pratovecchio, e oggi quelli di Castel San Niccolò, e domani scriverò quelli di Bibbiena…”. Un mondo di piccoli signori e di grandi imperatori, di vescovi e Papi, di re e capitani di ventura, di soldataglia e di qualche intellettuale – e poi ancora, vai!, “a cappar fanti nel Casentino”. Sono gli anni del “Niccolò cavalchereccio”: e da casa parte all’alba – “quattro uova sode, due panini gravidi (quelli che i paesi senza immaginazione sessuale chiamano sandwich), una rotella di cacio pecorino e, colma di buon vin di San Casciano, una borraccia”, tiene dettagliato conto del menu Prezzolini, ché la moglie Marietta “non vuole che vada all’osteria, dove spenderà i pochi soldi che gli passa il Governo”. E quello a chiedere qualche fiorino in più, e i “Magnifici Dieci” esigenti e sparagnini con i cordoni della borsa ben stretti. Né mai, nonostante i buoni successi, nonostante i suoi continui, straordinari rapporti, riuscì Machiavelli a diventare ambasciatore – sempre un gradino sotto, sempre e solo “servitor, secretario”, ser Niccolò Machiavegli.

    Non molto, abbastanza però. E ora, mentre riempie le pagine de “Il Principe” – il suo messaggio in bottiglia, la scialuppa che lo dovrebbe rendere al mondo – certo anche quel cavalcare continuo, nel gelo e sotto il sole, con i soldi contati, a gloria della Signoria, deve sembrargli un’età di (quasi) perfetta felicità. Non come qui a Sant’Andrea in Percussina: dove nessuna  possibilità, se non di felicità, di degna sopravvivenza s’intravede. “Così, rinvolto entro questi pidocchi, traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi”. E ser Niccolò che trattò col Papa e col re, ed ora col beccaio e il mugnaio, “m’ingaglioffo per tutto il dì giocando a cricca”, al calar delle ombre si sdoppia per provare a parare il dolore che lo stringe e la nostalgia che lo assale – si spoglia, “questa veste cotidiana, piena di fango e di loto”, e si traveste come quando Segretario della Signoria era, “e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui (…) sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro”. Quasi una gloriosa e patetica e grandiosa e stupefacente e ipnotica schizofrenia. Poi la lucerna si spegne, e il sole crudele torna a sorgere sull’Albergaccio. “Io son divenuto inutile a me, ai parenti e agli amici, perché ha voluto così la mia dolorosa sorte”.

    A volte, la consolazione – sporadica e grata – di qualche femmina nel letto che regala un sorriso e un po’ di piacere all’affaticato (dalla noia affaticato, dal sapere e dal non potere) Machiavelli: piacere che però neanche sfiora quello di quando la storia e le facce e i fatti gli scorrevano a fianco. “Standomi in villa, io ho riscontro in una creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile e per natura e per accidente, che io non potrei né tanto laudarla né tanto amarla, che la non meritasse più… Bastivi che, già vicino a cinquanta anni, né questi soli mi offendono, né le vie aspre mi straccano, né le oscurità delle notti mi sbigottiscono…”. Dalla biografia di Roberto Ridolfi: “Frequentava la bottega di Donato del Corno, che era sempre a caccia di bei ragazzi, e la casa della Riccia, una cortigiana ‘onesta’ ma non troppo. La sua fama di savio gli fruttava un posto al focone di quel mercante che voleva uscir di plebeo e qualche bacio ‘pure alla sfuggiasca’ rubato alla bella donna. Focone e baci pagava con ben pesati consigli; i quali riuscivano male (come nella politica, così nella vita!), allora l’uno lo chiamava impiccia-bottega, l’altra impiccia-casa. Povero Machiavelli!”. E povero sì, ser Niccolò, così che del suo declinante fascino e della poca sua fortuna dava diretta testimonianza, “parmi a tutti e due essere ventuo a noia, e l’uno mi chiama impiccia-bottega e l’altra impiccia-casa”. Più pratico, più realistico, Prezzolini: “Machiavelli era solito chiamar pane il pane e puttane le puttane; né vediamo perché e come dovremmo cambiar sistema parlando di lui. La Sandra di Pippo, che abbiam veduta così ospitale; la Mariscotta, che aiutò il Machiavelli ad ammazzare il tempo in Faenza; la Riccia, che si burlava di lui e lo chiamava impicciacase, ma che aveva fede e passione per lui; l’innominata vedova dell’Impruneta, che gli faceva dimenticare le carte e i classici (…) toccò a queste facili e generose e accomodevoli Maddalene di confortare la sua esistenza, e di fargli dimenticare le afflizioni che la vita pubblica e l’Italia gli procuravano”. L’ultimo suo amore pare sia stato per Barbara Salutati “detta la Cantatrice, dalla professione che ufficialmente esercitava”, di arditi costumi, chissà di quale intonazione, di sicuro di larghe e felici vedute: “E’ roba mia e la do a chi mi piace”. Rischiò di passare dei guai – nel suo girovagare tra letti altrui – il Machiavelli che calava da Sant’Andrea a Firenze a cercar risate e corpi. A parte le voci sulla sua presunta omosessualità, però non provata, al più allusa – scherzosamente allusa dallo stesso Machiavelli dopo aver ascoltato una terrificante predica di un certo frate sull’apocalittica tentazione: “Queste cose mi sbigottirono ieri in modo, che io aveva andare questa mattina a starmi con la Riccia, e non vi andai; ma io non so già, se io avessi auto a starmi con il Riccio, se io avessi guardato a quello”. Questo Riccio, scrive Maurizio Viroli, “era un giovane ganimede che frequentava gli amici omosessuali di Machiavelli” – e siccome la sodomia era crimine punibile con pubblica vergogna, carcere e multa, qualcuno inviò una lettera anonima agli Otto di Guardia per denunciare Machiavelli di aver praticato la stessa, seppur con la Riccia anziché il Riccio: “Notifichasi a Voi, Signori Otto, chome Nicholò di Messer Bernardo Machiavelli fotte la Lucretia vochata la Riccia nel culo. Mandate per lei et troverete la verità”. Almeno in quell’occasione, in nulla finì la velenosa perfidia del denunciatore anonimo.

    E magari a ogni essere umano (a cominciare da se stesso) Machiavelli riconosceva paradossalmente e in parte il diritto (così, a difesa delle sue libertà) di agire nella vita come al Principe consigliava in politica – nel contorcersi e intanto nel non perdersi tra l’opportuno apparire e l’ancor più opportuno essere, “non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato”. Perché è, l’ipocrisia, peggio (e sul culo della Riccia, pure sul culo della povera Riccia, a Machiavelli volevano infine schiantarlo), molto peggio, della declamata perdizione per il proprio vizio, essendo che “li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani”, più dall’apparenza che dalla sostanza. Come quel tal Principe “de’ presenti tempi” – loro e nostri, si potrebbe dire – che “non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato”. E al suo amico Vettori – che molto lo ammirava e poco lo aiutava –  quarantenne e accasato, “due figliuole maritate e da marito”, travolto dai sensi di colpa al far del giorno, dopo una notte di passione con una fanciulla, scrive e consiglia: “Alla vostra io non ho che dirvi, se non che seguitiate l’amore totis habenis, e quel piacere che voi piglierete oggi, voi non lo arete a pigliare domani; e se la cosa sta come voi me l’avete scritta, io ho più invidia a voi che al re d’Inghilterra…”. Perché, crede ser Niccolò molto giusto quello che già Boccaccio sapeva giusto: “Che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”.   

    La seconda parte della vita di Machiavelli – che “Il Principe” e tutti gli altri suoi capolavori letterari contiene – fu alla fine di tutto solo un lungo parlare notturno con fantasmi, un lungo inseguire come fantasmi fantomatici Principi di ogni regalità sprovvisti, una lungo penoso pietire, ma anche e soprattutto una lunghissima riaffermazione del proprio orgoglio. Il sasso che voleva “voltolare”, mentre lui disperatamente si voltolava per i sentieri di Sant’Andrea, gli si parò davanti un’altra volta, nel 1521. Un incarico degli Otto di Pratica – i successori dei “Magnifici Domini” dei bei giorni andati. Incarico miserabile, minuscolo, quasi una beffa alla sua intelligenza e al suo passato: doveva andare a Carpi, al Capitolo generale dei Frati Minori, a risolvere certe beghe sui conventi degli stessi – e persino un certo fra’ Ilarione, adesso, poteva dare ordini e disposizioni all’antico, intelligente Secondo Segretario della Signoria; e anzi,  volevano pure che sbrigasse la faccenda di un tal predicatore da far mandare in Duomo per la Quaresima prossima. Ma strada facendo poteva, Machiavelli, fermarsi a Modena a stemperare mestizia e furia per le lagne conventuali con il suo amico Francesco Guicciardini: stimava ognuno l’intelligenza dell’altro, interessi convergenti, forse identico disincanto. Ma destini diversi – molto diversi: di gloria Guicciardini, di dimenticanza Machiavelli, e sfotteva il primo l’incarico ricevuto dal secondo, che far cercare un predicatore a ser Niccolò era come dare a tal Pacchierotto, ghiottone e omosessuale noto in tutta la Signoria, “il carico di trovare una bella e galante moglie a un amico”. Ma almeno un raggio di luce, prima di tornare nella penombra dell’Albergaccio. “Aristocratico, gelidamente egoista, grave costumato, il primo; popolano, caldamente appassionato e generoso, leggero, sciolto di costumi il secondo: questo, teorico e idealista; pratico e realista quello” – così Ridolfi, su caratteri e sorte di Guicciardini e Machiavelli.

    Il suo urlo al Principe, “pigli, adunque, la illustra casata vostra questo assunto”, con lo scudo finale del Petrarca, rimase inascoltato – coperto dall’abbaiare dei cani. Un “mediocre, vuoto, scolorito scrivanello”, tal Francesco Tarugi, fu elevato al posto che sperava di riavere. “Cazzus!” – come pure un giorno scrisse. Rise ancora un po’, ser Niccolò, scopò qua e là, s’immalinconì di più, si lamentò con molti, si consolò con Guicciardini, osservò moglie e figli, si fece perciò ancora più triste, giocò alle bocce, parlò con antichi e bestemmiò con osti. “Io rido e il rider mio non passa dentro / Io ardo e l’arsion mia non par di fore”. Sognò i grandi tra i roghi e gli imbelli in cielo. Morì il 21 di giugno 1527. Non si difendeva più – pare. Perché, dissero, aveva smesso di ridere – persino del suo destino beffato e di ser Tarugi promosso.