La Francia non sa più scrivere romanzi, fa saggi inutili sui “capolavori”
A Parigi qualcuno si è chiesto che cos’è un capolavoro letterario e per rispondere ha scritto un libro. La notevole notizia ci viene da Stefano Montefiori, corrispondente nella capitale francese del Corriere della Sera, il cui supplemento libri di domenica scorsa si apre con un’intervista a Charles Dantzig, “affermato scrittore ed editore che a 51 anni ha deciso di dedicare un erudito saggio all’idea di capolavoro”. Da tempo la cultura francese dà segni evidenti di non sopportare più il suo recente glorioso passato ipercritico e paranichilista, che la portò mezzo secolo fa, a incarnare il culmine teorico, filosofico e antifilosofico, di ogni possibile e pensabile avanguardia.
A Parigi qualcuno si è chiesto che cos’è un capolavoro letterario e per rispondere ha scritto un libro. La notevole notizia ci viene da Stefano Montefiori, corrispondente nella capitale francese del Corriere della Sera, il cui supplemento libri di domenica scorsa si apre con un’intervista a Charles Dantzig, “affermato scrittore ed editore che a 51 anni ha deciso di dedicare un erudito saggio all’idea di capolavoro”. Da tempo la cultura francese dà segni evidenti di non sopportare più il suo recente glorioso passato ipercritico e paranichilista, che la portò mezzo secolo fa, dopo surrealismo ed esistenzialismo, dopo Breton e dopo Sartre, a incarnare il culmine teorico, filosofico e antifilosofico, di ogni possibile e pensabile avanguardia. Classicismo retorico e Rivoluzione, Accademismo e Rivolta contro ogni istituzione, compresa la lingua e la grammatica, hanno reso la Francia il paese intellettualmente più fervido, più stabile e più instabile, più eccitante e spettacolare del mondo. Prima si esalta e si celebra il paradiso geometrico e solare della Ragione, enciclopedica e illuminista. Poi si scopre la buia voragine dell’anti-Ragione, l’inconscio inafferrabile, indomabile, che ci domina e parla per noi senza il nostro assenso. Prima si dice che il romanzo è un genere letterario per educande, servette e poveri di spirito. Poi si scopre che gli inglesi e gli americani hanno sempre invaso e tuttora invadono il mondo con le loro narrazioni immancabilmente ben fatte: cosa che alla lunga ha spinto in un angolo e commercialmente umiliato una letteratura come quella francese, la quale invece, a forza di teorizzare sull’impostura della comunicazione e delle forme compiute, ha perso l’arte e l’artigianato del raccontare e del fare versi.
Ma la cultura di Voltaire e di Lacan non ha lo stile adatto per stare sulla difensiva. Quando scopre la propria sconfitta, trionfalmente attacca e si ribella contro tutti e contro il proprio stesso passato. Oggi l’ispirazione credo che venga, più o meno direttamente, da alcune pagine diaristiche di Roland Barthes, autore della frase secondo cui “la lingua è fascista”. Barthes però, nei suoi ultimi anni, anziano, malinconico e nauseato dalla melensaggine di allievi e imitatori, scoprì che anche l’oltranza critica, se replicata a oltranza da seguaci sciocchi, produce mediocrità, una mediocrità assolutamente moderna, terrorizzata dalla grandezza dei classici e terribilmente noiosa. Charles Dantzig, per quello che ne so dall’intervista di Montefiori sul Corriere (il suo libro non lo leggerò mai), ha riscoperto l’idea di capolavoro, per riscoprire subito dopo che non siamo stati mai capaci di definirlo. Questo naturalmente non gli può bastare. Non siamo capaci di definire che cos’è un capolavoro, eppure alla fine del suo libro Dantzig ne dà una definizione: “Il capolavoro letterario è un libro eccezionale che crea il suo proprio criterio e che non si può giudicare se non tramite se stesso. Espressione la più audace possibile di una personalità, ogni capolavoro è unico. Niente attiene al capolavoro se non la forma di quel capolavoro. Il capolavoro è la creazione più esaltante dell’umanità”.
Per quello che si legge in queste righe, mi pare che non ci siamo, perché la struttura della definizione è di tipo teologico, si può usare per dimostrare deduttivamente, senza prove, l’esistenza di Dio. Evidentemente, nonostante l’erudizione che sembra caratterizzare il suo libro (“A propos des chefs-d’oeuvre”, Grasset, 19,80 euro, 276 pp.) la volontà di definire il bello, il memorabile, l’eccellenza, la grandezza (e non solo in letteratura) si dimostra un’impresa disperata. Quella di capolavoro non è propriamente una nozione, è un’esperienza esclamativa, come rivelano le parole di Dantzig (“Il capolavoro è la creazione più esaltante dell’umanità”). E’ necessaria la capacità di riconoscere un valore. Eppure c’è sempre qualcuno che lo nega, lo limita, ne sceglie in alternativa un altro. Non è un valore assoluto ma relativo (niente nel mondo di quaggiù è assoluto, se non relativamente).
Quando poi si esce dall’enfasi assolutista della definizione di Dantzig, la relatività diventa lampante nei giudizi che egli dà su certi libri: allora si capisce senza ombra di dubbio che per me può essere un capolavoro quello che per lui o per te è un libro fallito (e viceversa). Ma allora?
Per Dantzig sono capolavori la “Recherche” di Proust ma non il “Voyage” di Céline, “Teorema” di Pasolini ma non “L’isola di Arturo” della Morante, il “Don Chisciotte” sarebbe un capolavoro presunto “che nessuno legge” e sarebbero un capolavoro le prime 40 pagine di “Caos calmo” di Sandro Veronesi. Per Dantzig il capolavoro letterario “è un grande libro sul quale non esistono più obiezioni”. Invece non c’è uno solo dei suoi giudizi su cui non farei obiezioni, e credo che non sarei il solo. Tra le affermazioni più ridicole c’è quella secondo cui nessuno legge “Don Chisciotte”. Anche questo è relativo. Credo che Dantzig non lo legga. Ma quel libro è certo molto letto e amato non solo in Spagna e in America latina ma nel mondo, mentre c’è da chiedersi chi legge davvero Racine e Proust, Boccaccio e Leopardi in Inghilterra o in Russia. E chi mai legge un capolavoro che Dantzig predilige come “De reditu suo” di Rutilio Namaziano? Del quale, in quanto liceale d’antan, conosco una sola frase riferita alla grandezza imperiale di Roma: “Fecisti patriam diversis gentibus unam”.
Insomma: ma guarda come si esibisce e in che guai si mette questo affermato scrittore ed editore francese! Definire che cos’è un capolavoro è impossibile e lui lo dimostra sia quando cerca di definirlo che quando esterna amori e antipatie.
Nel suo intervento di spalla Franco Cordelli suggerisce un’utile distinzione fra classico e capolavoro. Infatti quando l’empirico e prudente T. S. Eliot si impegnò a stabilire “che cos’è un classico” (non in un libro ma in venti pagine) riuscì piuttosto bene. Si preoccupò per prima cosa di riferire l’uso del termine “classico” a contesti diversi: per cui esistono classici della letteratura per l’infanzia, classici dell’umorismo e del poliziesco, classici nel senso di autori greci e latini (tutti o quasi), classici di una singola letteratura o di un’epoca, e infine autori che portano a piena maturità il genere letterario che usano, facendo scuola magari per secoli, chiudendo una tradizione o aprendone un’altra.
Interessante come sintomo e giusto in linea di principio è comunque il bisogno di dire che i capolavori esistono ed è meglio riconoscerlo che trascurarlo. Se ne era accorto da tempo, fino a diventare su questo punto alquanto maniacale, l’ebreo americano Harold Bloom, cultore di Whitman e della Bibbia, autore di volumi sempre più monumentali sul tema della grandezza. Ma come non bisogna abusare dell’aggettivo “grande” per gratificare e adulare chi ci piace, così il termine “capolavoro” andrebbe usato con discrezione, a volte con ironia antifrastica (che capolavoro di idiozia!) e sempre ricordando che nessun libro è indiscutibile. Sono ammesse le idolatrie, le incompatibilità, le pigre abitudini e anche i capricci.
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