In fondo a destra c'è Monti

Alessandro Giuli

La migliore introduzione al nuovo libro di Antonio Polito – “In fondo a destra”, Rizzoli – l’ha idealmente scritta Silvio Berlusconi con la sua promessa elettorale di restituire agli italiani l’Imu del 2012. Nel caso del Cav. si può parlare di un “genere politico-letterario” (l’idiosincrasia verso le tasse) che precipita nel colpo di teatro, come già accaduto con l’Ici nel 2006. Più in profondità, invece, si deve riconoscere, come fa Polito conversando con il Foglio, che “Berlusconi ha nuovamente risvegliato l’Italia maggioritaria dei ceti proprietari di case, ha segnalato che il problema esiste e nessuno prima di lui s’era adeguatamente posto il problema degli effetti sociali dell’Imu.

    La migliore introduzione al nuovo libro di Antonio Polito – “In fondo a destra”, Rizzoli – l’ha idealmente scritta Silvio Berlusconi con la sua promessa elettorale di restituire agli italiani l’Imu del 2012. Nel caso del Cav. si può parlare di un “genere politico-letterario” (l’idiosincrasia verso le tasse) che precipita nel colpo di teatro, come già accaduto con l’Ici nel 2006. Più in profondità, invece, si deve riconoscere, come fa Polito conversando con il Foglio, che “Berlusconi ha nuovamente risvegliato l’Italia maggioritaria dei ceti proprietari di case, ha segnalato che il problema esiste e nessuno prima di lui s’era adeguatamente posto il problema degli effetti sociali dell’Imu. Al punto che sia Pier Luigi Bersani sia Mario Monti hanno dovuto inseguirlo proponendo una rimodulazione dell’imposta”. Nella sua analisi, Polito parte dal presupposto che il Ventennio berlusconiano sia indiscutibilmente chiuso: “In questo ritorno dell’uguale cui stiamo assistendo, in questo ritorno sul luogo del delitto, c’è un che di terminale e non più credibile. Se Berlusconi fosse davvero una Thatcher italiana, avrebbe accompagnato alla restituzione dell’Imu un piano drastico di licenziamenti nel settore pubblico. Oppure avrebbe dovuto corredare la sua promessa con un progetto dirigista di tipo rooseveltiano: ricavare la copertura del taglio dell’Imu con un intervento radicale sui primi cento patrimoni privati italiani”. Diversamente, tutta scena. Ma che scena. “Il pifferaio magico ha risvegliato il fantasma senza rappresentanza, l’ottanta per cento d’italiani proprietari di prima casa, i cinque milioni di partite Iva: elettori delusi dal Pdl ma poco inclini a credere che i loro interessi verranno interpretati dal vecchio connubio Dc-Pci, nella sua versione aggiornata al 2013”. Polito ci sta dicendo che, se pure Berlusconi è destinato a uscire dal palcoscenico politico, le istanze di un immaginario partito liberal-conservatore restano maggioritarie e ardenti: “I bambini risvegliati dal pifferaio sono in marcia e in cerca di un punto di riferimento”. Questo punto di riferimento avrebbe potuto essere Mario Monti, e non è da escludere che riesca in futuro a diventarlo “se si libererà dall’antico schema secondo il quale l’Italia si governa dal centro, o meglio da una posizione ‘terza’ simile a quella dei Lib-Dem britannici o dei liberali tedeschi. I quali però, ecco il punto, una vera destra a fianco ce l’avevano già”.

    E’ questo l’esito principale del lungo libro di Polito? Lo è almeno in parte. “In fondo a destra” è anzitutto un ritratto delle condizioni storiche per le quali “Berlusconi ha rappresentato l’unica destra italiana dall’Unità a oggi”. Prima del 1994, una destra concepita come blocco alternativo alla sinistra in un regime di equilibrio bipolare era stata inconcepibile: “La destra era off limits dal 1882, dal momento in cui la Destra storica cadde sul pareggio di bilancio (ed è un altro monito per Monti) e Agostino Depretis diede vita da sinistra alla grande ammucchiata del trasformismo”. Quell’operazione fu il prologo di un’anomalia secolare “puntellata peraltro da illustri intellettuali e politici dell’epoca. Come Benedetto Croce. O come Sidney Sonnino”, di cui Polito riporta una frase illuminante al riguardo: “Il premere dei partiti estremi alimentati dalle tradizioni rivoluzionarie e l’ostilità politica irriducibile del Vaticano […] rendono a parer mio impossibile al grande partito costituzionale e liberale di darsi il lusso di dividersi normalmente in due schiere distinte e distintamente organizzate che si alternino con regolare vicenda al governo della cosa pubblica”. A ingessare tale anomalia, una volta chiusa la stagione del non expedit, avrebbe contribuito anche l’atteggiamento della chiesa oscillante tra due schemi opposti: il Patto Gentiloni – che orientava gli elettori cattolici verso i candidati liberali in cambio di un potere di condizionamento sui valori non negoziabili della chiesa – e il partito dei cattolici, concepito da Sturzo nel 1919 e inveratosi in forma totalizzante con la Dc del Dopoguerra. In questo orizzonte claustrofobico, ci dice Polito, la destra liberale è rimasta in uno stato di latenza appena interrotto dall’ingenua e calamitosa apertura all’Msi da parte del democristiano Fernando Tambroni (1960) e dall’effimera fiammata del Partito liberale nel 1963. Allora, scrive Polito, “l’elettorato moderato contrario al centrosinistra cerca rappresentanza in una destra moderna e liberale. Il Pli ottiene un grande successo raddoppiando i suoi voti […]. Va particolarmente bene nel nord-ovest e sfonda addirittura a Milano, dove diventa il partito della borghesia e degli imprenditori superando il 20 per cento”. Ma “l’exploit liberale si esaurisce nel corso degli anni Sessanta” e “le ragioni sono certamente da cercare nella timidezza del gruppo dirigente, guidato da Giovanni Malagodi, spaventato dal rischio di spostarsi troppo a destra”. Risultato: l’affermazione invalicabile di un centrosinistra pervasivo e implicitamente votato a fare della parola “destra” un tabù inaccostabile alla parola “governo” fino al termine della Prima Repubblica.

    La possente meteora berlusconiana va incastonata in questa cornice, anche per farne rilucere il fallimento. La seconda parte del libro di Polito è dedicata a questa occasione dissipata da una destra che si presenta per la prima volta come espressione di un blocco liberal-imprenditoriale alternativo alla sinistra, ma che tradisce programmaticamente se stessa nel rivelarsi ostaggio di un movimento separatista (la Lega), avulsa alla cultura resistenziale del Dopoguerra (vedi alla voce Alleanza nazionale), ostile nei fatti a principii, contesti e e organismi che per definizione qualificano un blocco nazional-conservatore di tipo europeo: la democrazia rappresentativa, i contrappesi istituzionali (a cominciare dal Quirinale e dal potere giudiziario), il saldo ancoraggio al popolarismo continentale, il rapporto osmotico con le élite dell’economia, della finanza e delle professioni. Berlusconi, dice Polito, entra di prepotenza nell’agone ma si riduce troppo in fretta a un leader “giacobino”, protagonista di un rapporto pre-politico e tutto personale con il “suo” popolo. Le premesse erano altre?

    C’è un passaggio interessante nella narrazione dell’autore che sembra ritagliato sull’italianissimo destino berlusconiano, ed è fondato su un’equazione politica: a una borghesia debole corrisponde una destra debole. Per sua natura e per varie circostanze storiche (nel 1886 l’Italia ebbe bisogno di riforme sociali e infrastrutture guidate dal potere pubblico), dall’Unità in poi la borghesia italiana ha sempre preferito la protezione statale al rischio di mettersi in gioco politicamente: “E’ nella trattativa con lo Stato, non nella partecipazione allo Stato attraverso la politica, che si organizza la difesa dei propri interessi. Più che di un partito, una borghesia così ha bisogno di un sindacato. E infatti ne troverà tanti lungo la sua vicenda storica. Basti pensare che nel Gran Consiglio del Fascismo sedevano di diritto i capi degli unici due sindacati ammessi, quello degli industriali e quello dei lavoratori”. La vicenda berlusconiana, malgrado la sua indiscutibile rupture, secondo Polito s’inquadra per intero in questo sistema vizioso: “E’ un imprenditore che si getta nella politica dopo aver accumulato una fortuna immobiliare all’ombra del potere partitico, e che sempre sotto quell’ombra fiorisce come tycoon”. Qui starebbe la genesi della sconfitta storica: “La prova che in Italia il partito della borghesia, da Confindustria in giù, si concepisce come un sindacato che subordina l’interesse generale agli accordi privati, particolari, in un regime d’ideologia concertativa permanente”. Non c’è destra possibile – suggerisce Polito – se non si esce dalla gabbia del populismo e della rivendicazione bottegaia di una destra così lontana “da quelle destre conservatrici che traggono la loro origine storica da un’ostilità al principio rivoluzionario della sovranità popolare, e puntano piuttosto al governo delle élite”.
    Su questo podio torreggia l’equivoco italiano della sovranità politica improvvisamente commissariata dai tecnici, dopo i rovesci berlusconiani dell’autunno 2011. Ed entra in gioco il professor Mario Monti, attentamente criticato da Franco Debenedetti nel suo pamphlet in arrivo nelle librerie “Il peccato del professor Monti” (Marsilio). Debenedetti rimprovera a Monti, e alla sua operazione oligarchica, un’estraneità intenzionale alla dialettica destra/sinistra, quasi un’indisponibilità a farsi costituzionalizzare. Polito ha letto il libro in bozze. “Concordo nelle conclusioni, non nella premessa. E’ giusto diffidare di chi oggi, finito il berlusconismo, anche senza faziosità tira un sospiro di sollievo immaginando che finalmente si possa tornare a governare l’Italia dal centro. Ma non si può polemizzare con il Monti-tecnocrate senza rilevare che il professore sta offrendo la sua esperienza al vaglio della democrazia. Per quanto lui possa far risaltare la proposta di promuovere non i politici ma i capaci, alla fine è il lavacro elettorale che conta. Monti è il prodotto di una crisi paragonabile a quella degli anni Venti del secolo scorso. Una crisi intessuta di antiparlamentarismo, caratterizzata da una questione morale usata in modo contundente e aggravata da una legge elettorale quasi peggiore della legge Acerbo”. Alla risoluzione di questa crisi – è la tesi di Polito – Monti oggi dovrebbe far seguire la normalizzazione del sistema intestandosi la nascita di una destra autentica.

    Obiezione: Monti condivide esplicitamente con Grillo (parole sue) un’insofferenza verso la topografia destra/sinistra e verso la qualità dell’attuale ceto politico, è quasi un tratto anti sistemico il suo. Polito concorda, e piega volutamente la sua analisi nella direzione di un altro Monti possibile: leader popolare di una destra finalmente europea e alternativa al blocco social-democratico. “L’esigenza vitale è questa, altrimenti ne risentirà anche la sinistra: in un paese naturalmente conservatore, in mancanza di una autentica destra conservatrice, si finirà per conservare soltanto la cultura del corporativismo. Perciò a Monti dico che lui potrebbe, dovrebbe curare questa esigenza. Per esempio non dicendo più di voler raccogliere i consensi di chi non si riconosce nella sinistra bersaniana, ma esplicitando che cerca i voti per una moderna destra europea”. Il Ppe gli aveva offerto un assist sontuoso al riguardo, quando il capogruppo europeo l’ha promosso candidato semi ufficiale. “Sensazionale, direi. Con la sua irrituale investitura montiana, il Ppe prefigurava quel che sarà l’eurocompetizione politica nei singoli stati di qui a dieci anni, e offriva a Monti la possibilità di stabilizzare il sistema bipolare italiano”. Invece. “Invece Monti s’è affrettato a telefonare al capogruppo del Ppe (e a far trapelare il contenuto della telefonata) per rifiutare l’offerta, commettendo a mio giudizio lo stesso errore del liberale Malagodi nel secolo scorso”. Il terzaforzismo è “una posizione dignitosissima, quando c’è già una destra ‘pronta all’uso’ in un bipolarismo maturo, altrimenti si traduce in minorità politica e si autocostringe all’alleanza con la sinistra”. La solita paura di dichiararsi di destra. “Monti non mette certo l’uguaglianza in cima alle sue priorità, dunque non è di sinistra. Non è un liberista d’assalto, certo, perché gli spiriti animali del capitalismo preferisce regolarli e non scatenarli; ma è a tutti gli effetti un conservatore europeo d’intonazione germanica”. E se Monti stesse soltanto occupando in via transitoria uno spazio pubblico – quello condiviso suo malgrado con Casini e Fini – avendo in vista di raccogliere l’eredità (e non solo i voti) del berlusconismo incompiuto? In effetti per Polito “la partita non è chiusa: il macigno berlusconiano ha sconsigliato Monti dall’accettarne l’investitura (peraltro sopraggiunta proprio mentre il Cavaliere tornava in pista) e un patto elettorale con lui. Ma dopo il voto, con un Berlusconi appassito all’opposizione, non è detto che la via d’uscita montiana sarà identica a quella d’ingresso”. Ipotesi estrema: “Perfino un’eventuale Grande coalizione con il Pd, da una parte, e Monti dall’altra a rappresentare insieme con il Pdl il blocco conservatore. A quel punto nascerebbe davvero la Terza Repubblica”. Sarebbe questo il modo per riscattare la promessa mancata del berlusconismo? La destra montiana che vagheggia Polito trae origine dal bipolarismo britannico realizzato da Benjamin Disraeli, un modello in base al quale – secondo lo storico A. J. P. citato dall’autore – “quando un partito diventava screditato, debole, confuso, un altro partito era in grado di presentarsi pronto per l’uso, non per salire sulle rovine dell’altro, ma semplicemente come un’alternativa all’altro”. Polito una destra così la voterebbe: “In fondo in fondo, nella mia vita avrei voluto votare almeno una volta a destra, e lo vorrei ancora”, scrive nell’introduzione. Il Cav. ci ha messo del suo, in tutti i sensi, ora dipende anche da Monti.

    Antonio Polito è stato fondatore e direttore del quotidiano il Riformista e senatore del Partito democratico. Attualmente è editorialista del Corriere della Sera. Prima di “In fondo a destra” ha pubblicato “Contro i papà” (Rizzoli).