Tremate, le élite sono tornate

Stefano Cingolani

Le élite sono tornate; la borghesia si era tenuta in disparte, quanto meno dal crollo della Prima Repubblica in poi, ma ora rientra nell’arena politica. E lo fa attraverso Mario Monti. Si compie, così, un altro dei corsi e ricorsi che hanno segnato la storia d’Italia dall’unità a oggi, con un leitmotiv: la natura delle classi dirigenti italiane le rende sempre riluttanti. Per Carlo Galli, è vero anche con la “salita” in politica di Monti.

Leggi La rivoluzione del mandarino Monti di Marco Valerio Lo Prete

    Le élite sono tornate; la borghesia si era tenuta in disparte, quanto meno dal crollo della Prima Repubblica in poi, ma ora rientra nell’arena politica. E lo fa attraverso Mario Monti. Si compie, così, un altro dei corsi e ricorsi che hanno segnato la storia d’Italia dall’unità a oggi, con un leitmotiv: la natura delle classi dirigenti italiane le rende sempre riluttanti. Per Carlo Galli, è vero anche con la “salita” in politica di Monti. Docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna, Galli ha appena pubblicato un saggio, “Sinistra” (Mondadori), la fine di un trittico cominciato con “Il disagio della democrazia” (Einaudi) nel 2011 e passato attraverso “I riluttanti” (Laterza) del 2012. L’ultimo libro è la sua risposta ai problemi aperti dalla rivoluzione neoliberista e neoconservatrice, risposta teorica e politica visto che il professore è anche candidato per il Pd a Modena.

    La storia italiana è fatta di cicli cinquantennali seguiti da cicli ventennali, intervallati da fasi di transizione più brevi, quelle nelle quali la politica si ritira e lascia il campo alla tecnica. Adesso, c’è bisogno che la politica si riappropri dello spazio lasciato vuoto e lo faccia con una proposta nuova, spiega il professore. La sua soluzione potremmo chiamarla “neolaburista”. Ma seguiamo il percorso della sua riflessione, cominciando una volta tanto dalla fine. “Lo stato sociale, dopo aver trionfato, è morto”, dice Galli al Foglio, e con esso entra in crisi anche la sinistra. “Era la democratizzazione delle due grandi potenze della modernità, lo stato e il capitale”, la “terza rivoluzione del Novecento”, dopo quella bolscevica e quella fascista. Le lotte sociali a cavallo tra gli anni 60 e 70 prima, la crisi petrolifera poi, fanno emergere la “crisi fiscale dello stato” come l’ha definita il marxista americano James O’Connor. La risposta è stata la “quarta rivoluzione”, quella neoliberista, la “vera rivoluzione conservatrice, una rivoluzione contro lo stato sociale”. Con la deregulation si mette in moto la globalizzazione che rappresenta “un passaggio di scala, non solo geografico: i vecchi confini vengono travolti e con essi cade anche il modello socialdemocratico che resta un modello nazionale”.
    Il conflitto tra economia che si internazionalizza e politica che resta nazionale lo aveva intuito Antonio Gramsci come conseguenza della crisi degli anni 30. Ma dopo il Secondo conflitto mondiale, l’Europa e buona parte dell’occidente si riorganizzano sulla base di una divisione del lavoro: “La politica nazionale diventa distribuzione del reddito e delle risorse, la grande politica la fanno le due superpotenze. Della storica coppia bismarckiana, burro e cannoni, resta solo il burro perché i cannoni sono nelle mani degli Stati Uniti e dell’Unione sovietica”. La grande politica, dunque, non si occupa più dell’economia? “Friedrich von Hayek teorizza in modo ferreo un ordine che non viene imposto dall’alto, ma che si fa da solo, attraverso il conflitto concorrenziale. E proprio Hayek è il pensatore più coerente della quarta rivoluzione i cui protagonisti politici sono Thatcher e Reagan”. Quando viene rimesso in discussione il “compromesso socialdemocratico” (in Germania e in Italia in realtà si dovrebbe parlare di “compromesso democristiano”) affiora anche la crisi della democrazia, non solo in termini di efficienza, ma di conflitto tra partecipazione e governabilità. Il testo chiave è il rapporto della Trilateral Commission del 1975 intitolato “The crisis of Democracy”. “Il primo decennio degli anni Ottanta è l’affermazione domestica del neoliberismo in occidente, mentre gli anni Novanta sono il momento dell’esondazione con l’abbattimento del comunismo occidentale e l’apertura della fase globale”, spiega Galli.

    La caduta del Muro di Berlino “provoca conseguenze macroscopiche” e rimette in discussione la divisione del lavoro tra grande politica ed economia autoamministrata. Quando nel 2008 si esaurisce il lungo ciclo neoliberista e la globalizzazione attraversa la sua prima crisi, si ripropongono i dilemmi di fondo. Galli ritiene che ci stiamo muovendo verso un nuovo assetto basato su grandi aree in competizione, in un certo senso tornano i confini, ma su scala continentale. “Il trattato di Maastricht è la risposta europea alla sfida globale. Ma ci vuole più Europa non meno Europa, per dirla con uno slogan oggi diffuso. L’Unione europea va cambiata perché oggi si trova dentro la linea d’ombra, è un processo politico, non tecnico da affidare agli eurocrati di Bruxelles”.
    Veniamo così al dilemma aperto dalla crisi della democrazia e riproposto dalla crisi della globalizzazione: tecnica o politica, élite o popolo. Una riflessione aperta in tutto il mondo e rilanciata per esempio da Fareed Zakaria a proposito degli Stati Uniti (“How to fix America”, il titolo del suo ultimo saggio su Foreign Affairs). Galli parla di “disagio”, di “spaesamento costante e improduttivo, insoddisfazione per la democrazia unita al sospetto che non ci siano alternative”. E con una immagine forte dice: “Il trono della democrazia oggi è vuoto, non vi siede né il popolo né lo stato, né il soggetto né i partiti, ma quel trono c’è ancora”. Sembra un’affermazione paradossale in un mondo che prima ha visto crollare i regimi coloniali, poi i residui sistemi fascisti (Spagna e Portogallo) e i dittatori militari (Grecia, Cile, Argentina) infine il comunismo, e adesso vede cadere i raìs del nazionalismo arabo. Eppure, l’intero occidente oggi vive questo disagio che nasce anche dalla “assuefazione alla democrazia”, dalle promesse non mantenute: “E’ come se ci si trovasse in un mercato dei diritti e si scoprisse che la merce non c’è”. In Italia, esso fa da sottofondo allo scontro elettorale.

    Corsi e ricorsi nella storia d’Italia
    Stiamo vivendo, spiega Galli, la conclusione di un altro ciclo ventennale della storia d’Italia cominciata nel Risorgimento. La prima fase, quella della destra storica, ha visto protagonista la borghesia produttiva che ha fatto politica in prima persona. Poi comincia la delega ai politici di professione. E’ la Sinistra storica che arriva fino a Giolitti e porta a compimento la prima industrializzazione. A questo punto, la borghesia si distacca. “La Grande guerra esaurisce le risorse nazionali, l’Italia vincitrice è in realtà un paese al collasso. Dunque, l’élite s’affida a chi viene dall’esterno, come Benito Mussolini. Una delega non in bianco perché si assicura benefici per sé, ma molto ampia che finisce con la catastrofe del 1943”. La ricostruzione vede di nuovo l’élite borghese in campo insieme agli uomini nuovi che nessuno conosceva, i De Gasperi, i Togliatti. “Si generano tre legittimità incrociate: quella anti fascista della guerra civile, quella anti monarchica e quella anti comunista”.
    La morte di Moro interrompe il ciclo post bellico: “Dopo, la politica italiana è degenerata in gestione parassitaria”. Galli vede gli anni 80 come una lunga agonia del sistema. Anche il Pci che con Enrico Berlinguer solleva la questione morale, partecipa a questo declino: “L’antica idea della egemonia diventa semplice diversità; denuncia nobile, ma priva di prospettive, la dimensione etica prende il sopravvento sulla politica”. Poi arriva la fine del comunismo che precede il crollo della Prima Repubblica con “la mitologia legalitaria di Mani pulite”. Da questo punto di vista “Berlusconi è già un Termidoro, dopo i poco eroici furori pseudo-giacobini”. Le élite si ritraggono di nuovo e ancora una volta si affidano “a un capo a un eroe dannunziano”. E giocano anche la carta del populismo, perché ciò permette di “accettare i tempi nuovi senza cambiare davvero, consente al capitale di delocalizzare rimanendo provinciale e subalterno”.
    I corsi e ricorsi della politica hanno intervalli importanti. Per esempio la grande crisi del 1929 spinge Mussolini a mettersi nelle mani di una tecnocrazia non fascista che viene anzi da una tradizione socialista e nittiana (si pensi ad Alberto Beneduce) o laico-liberale come la Banca commerciale di Raffaele Mattioli. E così il ciclo berlusconiano è interrotto dai governi tecnici degli anni 90 che smontano lo stato imprenditore, operazione completata dai governi di sinistra (i due Prodi, i brevi D’Alema e Amato). Ma il passo lungo della storia non muta, sostiene Galli. E adesso siamo di nuovo a un tentativo delle élite di mettersi a far politica in prima persona.

    Borghesia pur sempre riluttante
    Con Monti “si tratta del ritorno della borghesia moderata che vuole riprendersi il controllo dei processi economici, delle spese e delle entrate, dei debiti e dei crediti. E lo fa attraverso un suo esponente, un professore d’economia, grand commis europeo, che sa parlare anche in inglese, ma non sa comunicare, che non vuole piacere; anzi procura qualche robusto dispiacere ai cittadini”.  Ci sono, ancora, parallelismi importanti: la caduta del governo Berlusconi appare come “una sorta di 25 luglio costituzionale”. Ed esiste un’analogia formale tra il 1943 e il 2011: “Le élite tradizionali, davanti a un vincolo esterno, costituito questa volta non dalla guerra, ma da un attacco alla sovranità nazionale che viene dalla tempesta finanziaria, hanno tardivamente cercato di riprendere in mano la situazione”. E tuttavia non siamo ancora al ritorno pieno della borghesia alla politica, perché “essa rimane riluttante, e cerca di riprendersela sotto la forma della tecnica”. Nel montismo quindi “non c’è solo la nostalgia per la politica autorevole e fattiva: c’è anche il sospetto verso la politica da parte dei cosiddetti poteri forti – sostiene Galli – C’è l’idea che dopo tutto sia meglio lasciar governare chi è non politico, ma ha le competenze tecniche per affrontare il problema centrale del nostro tempo, cioè l’economia”. Le elezioni rappresentano, invece, il ritorno della politica, della scelta, dopo la fase della necessità. “Per un politico c’è sempre un’altra soluzione possibile, non può accettare che non esistano alternative”. Galli offre a Bersani non solo il proprio contributo da candidato, ma anche una sorta di piattaforma basata sul rilancio del binomio lavoro e democrazia, nelle condizioni odierne dell’uno e dell’altra. Ritiene che il Pd debba “marcare la sua differenza e la sua distanza, anche da Monti” (quella da Berlusconi è scontata), “deve essere parte, per poi costruire un nuovo insieme”. Con Monti? Anche, in fondo c'è bisogno di un’altra ricostruzione (tanto per continuare con le analogie storiche). Possono essere alleati all’insegna dell’emergenza, di “una politica responsabile che tiene insieme un pezzo di destra e di sinistra ed esclude la politica irresponsabile a diverso titolo”. In ogni caso, politique d’abord non solo come amministrazione delle cose, ma come governo degli uomini, rovesciando il detto di Saint-Simon? “L’uno e l’altro – replica Galli – perché senza produzione di ricchezza non c’è nemmeno democrazia”.

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