Il romanzetto politico di Ingroia, gli euro-intellò al tempo di Internet

Alfonso Berardinelli

Per indignarsi ci sono sempre ragioni sufficienti. Soprattutto ragioni morali, o meglio di immoralità pubblica. Ci si indigna contro il ceto politico perché gode di privilegi che non merita, perché non sa governare o lo fa a proprio vantaggio. Ci si indigna per le disuguaglianze sociali, soprattutto quando crescono. Ci si indigna quando ci vengono chiesti sacrifici da uno stato che comunemente ci ignora e ci vessa con una burocrazia inefficiente, con leggi o mal concepite o male applicate e normative incomprensibili.

    Per indignarsi ci sono sempre ragioni sufficienti. Soprattutto ragioni morali, o meglio di immoralità pubblica. Ci si indigna contro il ceto politico perché gode di privilegi che non merita, perché non sa governare o lo fa a proprio vantaggio. Ci si indigna per le disuguaglianze sociali, soprattutto quando crescono. Ci si indigna quando ci vengono chiesti sacrifici da uno stato che comunemente ci ignora e ci vessa con una burocrazia inefficiente, con leggi o mal concepite o male applicate e normative incomprensibili.
    I sentimenti sociali, fra cui l’indignazione, nascono per lo più dal senso di giustizia. E la certezza di subire ingiustizie umilianti scatena sempre reazioni furiose, sia motivate che cieche. In un paese come l’Italia, in cui il cittadino continua a essere trattato come un suddito da uno stato che si definisce democratico, ed è imbrogliato e tradito anche per decenni interi dai partiti politici, che cosa avviene? Avviene che ci si aspetti giustizia dai giudici, dai magistrati: non dal Parlamento e dal governo ma da chi deve applicare le leggi, deve processare, condannare e punire.

    C’è poco da meravigliarsi quindi se i giudici diventano protagonisti: se entrano in politica, se fiutano la popolarità, se fondano nuovi partiti. Prima Antonio Di Pietro, ora Antonio Ingroia, la cui vanità buca la maschera della giusta indignazione, della competenza giuridica e della moralità inflessibile. Fondare nuovi partiti, soprattutto a sinistra, è uno sport nazionale. Vogliono sentirsi capi, leader, esecutori della richiesta “popolare” di giustizia. Poi c’è Beppe Grillo, di cui si potrebbe dire soltanto che “lo stile è tutto”. Anche lui “dice cose giuste”. Ma c’è qualcuno in politica che dice cose ingiuste? Le campagne elettorali sono esasperanti. Tutti sembrano giusti e tutti sono all’opposizione, in vista del governo o avendo già governato. E’ la fiera delle balle, la gara a chi le spara più grosse.
    Abbiamo sentito Ingroia, capo di una neo formazione da lui intitolata Rivoluzione civile (come un romanzo d’avventure) che per fare onore alla parola “rivoluzione” ha detto in tv, con fronte bronzea e sorrisetto sadico, queste parole: “Andremo in Parlamento e cambieremo l’Italia”. Che estremista incoerente! Coerenza avrebbe voluto che dicesse: l’Italia non si cambia in Parlamento, in Parlamento l’Italia non c’è e le rivoluzioni, soprattutto quelle civili, si fanno altrove, nella società civile, o come direbbe qualche anarchico umanista, nelle coscienze e nella vita di tutti i giorni.
    Quanto durerà Ingroia? Vedremo. Ma intanto c’è e questo lo soddisfa. Se non fa presto, però, a fare la rivoluzione, arriverà come sempre la reazione. E lui dovrà andare in esilio, gloriosamente come in un romanzo poetico d’avventure. Forse lo scriverà lui quel romanzo. In stile Sciascia o in stile Camilleri? Bel problema.

    Non so quanto e da chi sia stato letto l’appello lanciato da un gruppo di intellettuali e scrittori per salvare l’Europa (l’ho letto sul Corriere della Sera del 25 gennaio scorso). Ecco l’incipit: “L’Europa non è in crisi, è in punto di morte. Non l’Europa come territorio, naturalmente. Ma l’Europa come idea. L’Europa come sogno e come progetto. L’Europa il cui spirito fu celebrato da Edmund Husserl nelle sue due grandi conferenze pronunciate a Vienna, nel 1938, e a Berlino, alla vigilia della catastrofe nazista”. Ed ecco le conclusioni: “Una volta si diceva: socialismo o barbarie. Oggi bisogna dire: unione politica o barbarie. O meglio: federalismo o barbarie. (…) E meglio ancora: o l’Europa fa un passo in più, ma decisivo, sulla via dell’integrazione politica, oppure esce dalla Storia e sprofonda nel caos. Non abbiamo più scelta: l’unione politica o la morte”.
    E’ un testo che sembra scritto da un liceale solerte e confuso o da un cattivo retore di provincia. Comunque, linguaggio a parte, anche questi intellettuali dicono qualcosa di giusto e di vero che si può condividere. E poi? E allora? A chi è rivolto l’appello? Ai politici? proprio a coloro che dell’Europa non hanno un’idea? O agli intellettuali? Loro sì che un’idea dell’Europa credono di averla, ma da dove gli viene e cosa ci fanno?

    Gli scambi e la comunicazione fra scrittori e intellettuali europei sono in declino da decenni. Ci conosciamo a malapena e solo se qualcuno di noi è riuscito a fare centro con un best-seller. Per il resto si guarda altrove: agli Stati Uniti sempre, a volte all’America latina. Negli anni Sessanta, con la generazione di Calvino, Grass, Pasolini, Enzensberger, Butor e altri, al tempo di riviste come Kursbuch, Tel Quel, il Menabò, Quaderni Piacentini, New Left Review, c’era ancora informazione, collaborazione, si facevano riviste per scambiarsi testi letterari e idee. Oggi quanti autori tedeschi conoscono la letteratura italiana degli ultimi vent’anni? Quanti italiani hanno un’informazione sufficiente sulla cultura spagnola, greca, ungherese? L’idea di Europa è un’idea tramandata nei secoli, è fatta di storia, di grandi classici, di città-museo. Forse c’era più Europa quando c’erano più forti identità nazionali. Tra i firmatari dell’appello, i più giovani sono prossimi ai settant’anni (Savater, B. H. Lévy, Rushdie, H. C. Buch), gli altri hanno superato quella soglia (P. Schneider, Lobo Antunes, Kristeva, Magris) e i decani sono Eco e Konrád. Le nuove generazioni che dicono, che fanno, si conoscono? Mi sembra che la globalizzazione abbia cancellato il vecchio cosmopolitismo. La velocità telematica ha diffuso l’impressione di essere in contatto con tutti senza incontrare nessuno.