Perché la guerra valutaria asiatica passa anche per le sigarette

Alberto Brambilla

I report e le opinioni degli analisti delle banche d’affari non sempre coincidono. E’ il caso della “guerra valutaria” che secondo alcuni esperti è attualmente in corso, mentre secondo altri è uno scenario completamente infondato, almeno per adesso. Comunque la si veda, il “casus belli” della disputa economica scoppia in Giappone. Con l’arrivo al governo del conservatore Shinzo Abe, eletto premier nel dicembre scorso, la politica monetaria della Banca centrale nipponica è stata influenzata dalle necessità dell’economia e dalla volontà della politica.

    I report e le opinioni degli analisti delle banche d’affari non sempre coincidono. E’ il caso della “guerra valutaria” che secondo alcuni esperti è attualmente in corso, mentre secondo altri è uno scenario completamente infondato, almeno per adesso. Comunque la si veda, il “casus belli” della disputa economica scoppia in Giappone. Con l’arrivo al governo del conservatore Shinzo Abe, eletto premier nel dicembre scorso, la politica monetaria della Banca centrale nipponica è stata influenzata dalle necessità dell’economia e dalla volontà della politica. La decisione di proseguire con l’acquisto di titoli di stato e fissare per la prima volta nella storia un obiettivo di inflazione (2 per cento) serve a indebolire lo yen nei confronti del dollaro e a correggere la deflazione cronica del paese, la discesa generalizzata dei prezzi e dei consumi. Con la conseguenza di fare ripartire, se possibile, le esportazioni grazie appunto a questa “svalutazione competitiva”.

    La forte intrusione della politica nella Bank of Japan ha portato il suo governatore, Masaaki Shirakawa, ad anticipare di tre settimane la fine del mandato alla guida della terza Banca centrale del pianeta. Lascerà il 19 marzo. “Ci si aspetta che il nuovo governatore sarà uno che spingerà molto verso politiche espansive”, ha detto a Japan Times Akito Fukunaga, analista di Rbs Securities Japan Ltd.
    La determinazione del governo di Tokyo, sommata alla politica iperespansiva della Banca centrale americana, è un potenziale rischio per l’euro, sostiene da giorni ad esempio il presidente francese François Hollande; mentre il falco tedesco della Banca centrale europea, Jens Weidmann, già un mese fa aveva messo in guardia sul pericoloso precedente nipponico: testimonianza della perdita d’indipendenza delle Banche centrali. L’euro è una moneta che non può essere svalutata con iniezioni di liquidità (l’immagine dell’euro è quella di un vaso di coccio tra vasi di ferro). E ciò determina lo scenario di una “guerra valutaria”, in cui chi svaluta ottiene un vantaggio commerciale sugli “avversari” perché in teoria esporta di più. Per il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurría, non è questo il caso del Giappone che non sta affatto manipolando lo yen.

    Non è la guerra, è la “pax valutaria”
    “Trovo che la definizione di guerra valutaria sia scorretta”, dice al Foglio Robert Feldman, capo economista di Morgan Stanley con base a Tokyo ed esperto della politica valutaria nipponica. “Penso invece che stiamo osservando il ritorno della pace”, aggiunge. Il motivo è che “lo yen è stato una valuta rifugio, aveva un valore troppo elevato e, in un certo senso, il Giappone è stato una vittima inconsapevole della crisi finanziaria globale. Ora le cose stanno iniziando a rientrare nella norma – dice Feldman – e così devono fare anche i tassi di cambio”. Con l’economia americana in “lento recupero” e un’Europa che, tra i “molti problemi da risolvere”, sta cominciando a trovare “coordinazione” sia monetaria sia fiscale “migliorandosi” dal punto di vista della regolamentazione del sistema finanziario. “Questi progressi, in entrambi i casi, devono riflettersi sui cambi e, dunque, quello che stiamo vedendo sui mercati valutari è una normalizzazione”, dice Feldman. In questo contesto “tutto quello che ha fatto il Giappone è decidere di cambiare la propria politica monetaria e il mercato ha capito che sono seri, hanno intenzione di farlo, e sta scontando questo evento molto velocemente”, lo yen. Se fossimo in Giappone, dice Feldman che vive a Tokyo, vedremmo quante industrie giapponesi sono state “vittimizzate” dalla “manipolazione di altre valute all’inizio della crisi finanziaria in America”. “Stiamo perdendo molte grosse compagnie e penso per questo che sia scorretto dire che il Giappone ha un atteggiamento aggressivo perché, in realtà, altri paesi l’hanno avuto facendo pagare il conto ai giapponesi”, constata Feldman. Se l’occidente è in trepidazione, in Asia la situazione è completamente diversa. Il Giappone è vicino, ma le politiche valutarie adottate dagli altri paesi dell’area sono opposte. La Cina, in particolare, ha la necessità di tenere sotto controllo l’inflazione. Al punto che mercoledì la Banca centrale della Repubblica popolare ha comunicato in un rapporto di “guardare con attenzione” alle spinte inflazionistiche. “Durante questa fase di transizione economica – si legge – la prevenzione del rischio inflazione deve sempre essere tenuta presente”. Sono preoccupazioni che arrivano da un governo che viene accusato di tenere sottovalutata la sua moneta, il renminbi. Anche un recente occasional paper della Banca centrale europea confuta la posizione ufficiale di Pechino per cui il renminbi avrebbe “il giusto valore”. Secondo l’analista di Morgan Stanley Feldman, ancora controcorrente, “i prezzi in Cina sono attualmente sotto controllo e quindi questo non è un tema”. Semmai, nota Feldman, il “vero problema” nei paesi asiatici, considerati economie emergenti, è l’allocazione delle risorse per evitare delle ‘bolle’ speculative come, ad esempio, quella statunitense scoppiata perché si era investito troppo nel settore immobiliare residenziale. Ma in Cina viene molto utilizzata anche un’altra valuta, una tossica merce di scambio: le sigarette.

    In Cina il tabacco è una “valuta sociale”
    Smettere di fumare in Cina è un’impresa più difficile che altrove, soprattutto durante le feste. Durante il Capodanno cinese, appena passato, è infatti consuetudine regalare ad amici e parenti stecche di sigarette (se possibile pregiate). Rappresentano uno “status symbol” che ammazza un milione di cinesi l’anno. “Quello che è unico in Cina è l’esistenza di alcune sigarette, di lusso, che costano molto di più di un salario mensile (15 renminbi a pacchetto)”, ha detto la direttrice della World Lung Foundation, Yvette Chang, intervistata da Bloomberg. “E’ questa percezione di un alto valore del prodotto che fa delle sigarette una moneta sociale”. La malsana moda è talmente diffusa che le multinazionali del tabacco, British American Tobacco e Philip Morris, hanno studiato la cultura del dono del fumo tra i cinesi raccogliendo informazioni per creare il brand delle loro sigarette “premium” locali. L’inflazione di questa “valuta” è forse la più difficile da combattere per chi vuole fermare il vizio mortale, come l’Organizzazione mondiale della sanità. La Cina è il maggiore mercato delle sigarette. Lo stato guadagna 19 miliardi di dollari l’anno con il monopolio e controlla il principale produttore, la China National Tobacco. E’ insomma quasi impossibile che nella tabaccheria del mondo si realizzi la svalutazione del mozzicone.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.