Il buono e il cattivo

Le facce tristi di Milito e Delio Rossi

Sandro Bocchio

A segno in otto partite, a segno in altrettante vittorie. Non è un caso, non può mai essere un caso quando si tratta di Diego Milito. Lui è rimasto uno dei pochi insostituibili nella povera serie A attuale. Indispensabile, come Edinson Cavani al Napoli, come lo era Zlatan Ibrahimovic al Milan. Residuati superati dalla cooperativa della fatica juventina, ma inimitabili. Come quello di Milito, anche lo sguardo di Delio Rossi confligge con l'esuberanza.

    A segno in otto partite, a segno in altrettante vittorie. Non è un caso, non può mai essere un caso quando si tratta di Diego Milito. Lui è rimasto uno dei pochi insostituibili nella povera serie A attuale. Indispensabile, come Edinson Cavani al Napoli, come lo era Zlatan Ibrahimovic al Milan. Residuati superati dalla cooperativa della fatica juventina, ma inimitabili. Perché, quando Milito manca, l'Inter tutta se ne accorge. Al punto che l'argentino costituisce une delle rare eccezioni nella normalizzazione freneticamente introdotta in casa nerazzurra, adducendo la spending review come motivazione primaria. Un piano che ha portato allo smantellamento progressivo della squadra che aveva centrato il triplete di mourinhiana memoria. Esistevano giusti motivi anagrafici, maggiormente pressanti erano però quelli economici che hanno portato – per ultimo – all'addio di Wesley Sneijder, accolto da un calcio turco più ricco e più generoso per l'aspetto fiscale. Ma per Milito era ed è doveroso fare un'eccezione, e non soltanto perché lui non guadagna come guadagnava chi ha salutato. Ma perché il centravanti dal volto triste sa essere sempre un valore aggiunto. Uno che può sbagliare un pallone, ma che a quello successivo inesorabilmente ti punisce. Non era titolare da quasi due mesi, domenica sera è tornato e ha lasciato il segno sulla pelle del Chievo. A modo suo, con un gesto rapido e letale in area. Quello che gli viene chiesto, perché Milito non può permettersi di correre indietro a coprire come fa Cavani, prototipo dell'attaccante moderno. Per ragioni di età, visto che gli anni saranno 34 il 12 giugno, e per caratteristiche proprie. Lui è sempre vissuto in quei (e per quei) sedici metri finali, come avrebbe declamato Sandro Ciotti. Dal primo affacciarsi nel calcio italiano con il Genoa fino al rientro dalla Spagna, per ripassare dalle parti rossoblù prima di finire all'Inter. Qui è diventato il terminale offensivo che ha decretato le fortune di José Mourinho – al punto da dirottare Samuel Eto'o in fascia –, qui lo dev'essere per Andrea Stramaccioni, anello di congiunzione tra la squadra che era e quella che verrà.

    Come quello di Milito, anche lo sguardo di Delio Rossi confligge con l'esuberanza. Una tristezza di fondo cui il tecnico tenta di ovviare con battute a mezza bocca, dai risultati non sempre conseguenti. Una faticata loquacità che sta rinvenendo il proprio contrappeso in una dimensione gestuale totalmente inaspettata. Non che Rossi avesse evitato atteggiamenti totalmente estranei al mondo paludato del calcio, come il tuffo nella fontana di Trevi dopo la vittoria in un derby romano. Il problema è che dalla goliardia ora sta scadendo nel teppismo. Quello violento, come la scazzottata con Adem Ljajic dopo una sostituzione contestata nella Fiorentina la passata stagione. E quello provocatorio, come il dito medio palesemente mostrato domenica ai giocatori della Roma, probabilmente in presenza di vecchie ferite dell'epoca laziale. Quando prese a pugni il suo attaccante, Rossi si scusò e trovò anche chi lo giustificò. Stavolta nessuna scusa da parte del tecnico della Sampdoria ma, piuttosto, il tentativo infastidito di svicolare davanti a precise domande. Come se Rossi avesse capito che questa volta si trattava di un gesto non provocato ma totalmente gratuito. La via diretta per trasformarsi da vendicatore di allenatori disperati in bulletto di periferia. Quello che tenta di negare la verità, pur se colto in flagrante. E, per questo, meno giustificabile.